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La sfida? Rinnovare i media del Vaticano
È stato uno dei primi a intuire la novità dello “stile” di papa Francesco. Che poi lo ha scelto quale responsabile della…
Il giorno in cui Dio si fa ammirare
Ci sono cose che accadono, senza di noi. Questo fa parte del mistero del natale. E la sua soluzione si chiama Epifania.
Intervista a mons. Dario Edoardo Viganò
La sfida? Rinnovare i media del Vaticano
È stato uno dei primi a intuire la novità dello “stile” di papa Francesco. Che poi lo ha scelto quale responsabile della comunicazione vaticana. Per sintonizzare i vecchi strumenti con il nuovo pontificato.
Monsignor Dario Edoardo Viganò ha un sorriso aperto e lo sguardo vivace e penetrante. In questo, sicuramente assomiglia al suo “principale”. Nel giugno 2015, infatti, papa Francesco lo ha nominato prefetto della nuova Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, praticamente “ministro dei mass media” vaticani. Cinquantatré anni ben portati, Viganò è in effetti uno dei più stretti collaboratori del Pontefice, nonché tra i massimi esperti ecclesiali in tema di telecomunicazioni: direttore del Centro televisivo vaticano (Ctv) dal 2013, docente di Teologia della comunicazione alla Lateranense, presidente della Fondazione Ente dello spettacolo, ha appena pubblicato un libro (edito da Rai Eri) intitolato Fedeltà è cambiamento, in cui racconta il pontificato di Jorge Mario Bergoglio quasi in presa diretta.
Sin dal primo momento dell’elezione di papa Francesco, ai fedeli riuniti in piazza San Pietro (e a quelli “attaccati” alla tv in tutto il mondo) è stato chiaro che il nuovo Pontefice aveva uno stile tutto nuovo, quasi rivoluzionario. Il “buonasera”, la sottolineatura sul ruolo di vescovo di Roma, la richiesta di una sorta di benedizione da parte del popolo di Dio… Occuparsi di comunicazione con un un Papa così imprevedibile non deve essere un lavoro facile.
Come direttore del Centro televisivo vaticano, lei ha potuto seguire il “dietro le quinte” dei primi istanti del pontificato, da quando sono state aperte le porte della Sistina subito dopo l’elezione. Anche lei ha avuto l’impressione di un pontificato diverso e radicalmente nuovo? Quali sono stati i gesti di papa Bergoglio che l’hanno colpita di più in quelle prime ore?
«Pochi secondi sono stati sufficienti per comprendere che quanto stava succedendo era qualcosa di nuovo: un semplice abito bianco, una sosta davanti al Giudizio di Michelangelo, un andamento di chi per anni ha attraversato strade e fatto incontri, una preghiera silenziosa in Cappella Paolina seduto nella penultima panca. Poi la loggia si apre e compare un uomo sorridente con le braccia che lascia cadere lungo il corpo: una sorta di Ecce Homo, silenzioso e offerto alla sua Chiesa. Sulla regia mobile si percepiva un silenzio carico di stupore e di gioia. Che alle sue prime parole, «Fratelli e sorelle, buonasera» è diventato affetto. Una volta chiusa la loggia centrale le telecamere del Ctv lo hanno seguito all’ascensore fino alla salita sul pulmino che lo ha portato a Santa Marta: i primi saluti, i tanti sorrisi, le molte mani strette. Difficile paragonare tutto questo a quanto vissuto e visto in altri conclavi: qui qualcosa di nuovo stava accadendo. Non sapevamo cosa, ma tutti eravamo certi che lo Spirito Santo ci avrebbe stupito. Una sensazione che dopo quasi tre anni prosegue ancora».
Leggendo il libro che lei ha scritto, si capisce che il Papa è un uomo schivo, che non ama stare al centro dell’attenzione o sotto i riflettori. Eppure, nonostante questo, è un uomo che ha colpito subito tutti - credenti e non credenti - e che ha conquistato una enorme popolarità e un grande affetto. Qual è il suo segreto allora?
«Mi piace dire questo: papa Francesco ama stare “in mezzo” ma non ama essere “al centro”. In mezzo alla gente, in mezzo alle questioni cruciali degli uomini e delle donne, ma sempre con l’atteggiamento di defilarsi dalla scena, per indicare che il centro è Gesù. Il segreto dell’affetto che tutti, credenti e non credenti, gli mostrano? Un uomo non solo straordinariamente radicato nella parola di Dio, che vive immerso nello Spirito Santo, ma anche un uomo che ha sofferto, che non ha avuto vergogna di piangere, di dire di sé che è un peccatore perdonato. Solo quando un uomo sperimenta la straordinarietà della misericordia di Dio sa bene che nulla dell’umano può essere escluso allo sguardo del Padre. Insomma, le sue parole semplici e i suoi gesti inattesi eppure normali hanno il peso e la verità della sua vita: questo si intuisce subito e per questo viene spontaneo fidarsi di quanto dice».
Un’altra cosa che abbiamo imparato in questi anni di pontificato di Jorge Mario Bergoglio, è che è un uomo che “guarda negli occhi”, cioè che è capace di forte empatia con le persone: ascolta realmente ciò che dicono, si avvicina realmente (specie verso i più poveri), si lascia coinvolgere e abbracciare. Questa qualità, umana prima che cristiana, ha delle conseguenze sul modo di esercitare il primato petrino? E quali?
«Lo stile del primato di papa Francesco è creare le condizioni per le quali ciascuno si senta libero di esprimere il proprio pensiero, la propria opinione; lo abbiamo visto durante il Sinodo sulla famiglia. Lui ascolta, appunta, prega ed è garante dell’unità della Chiesa tutta. Un primato che sa muoversi con una sinodalità frutto del Concilio Vaticano II. Le conseguenze di questo stile di ascolto e di dialogo hanno dato impulso a passi importanti nel dialogo ecumenico e nel dialogo interreligioso».
Lei nota nel suo libro che Bergoglio ha rinnovato radicalmente l’immagine del papato. E che la sua rivoluzione non è una mera operazione di lifting, ma va in profondità, mirando a rinnovare l’insieme della Chiesa. In che modo? Insomma: perché la vera fedeltà è il cambiamento?
«Essere fedeli significa essere cuciti su Gesù: non si può essere discepoli a distanza perché lo spazio tra il discepolo e il maestro si riempie subito dei frutti del diavolo. Proprio perché così radicalmente innestato nel mistero di Dio, papa Francesco può intraprendere i cammini che la creatività dello Spirito Santo suggerisce. Nella genealogia di Gesù raccontata da Matteo, l’autore inizia con Abramo padre della fede, ma poi inserisce donne e uomini peccatori. Per dire che la grazia di Dio sa includere i peccatori senza abbandonarli, ma radicandoli nell’albero genealogico del Messia. Questo significa essere fedeli e insieme creativi. Chi invece è radicato sui propri progetti, anche belli magari, cerca di mantenere la situazione che garantisce il massimo profitto possibile. È proprio un’altra storia».
Lei è stato scelto quale prefetto della nuova Segreteria per la comunicazione della Santa Sede. Come si fa a portare il rinnovamento di papa Francesco nel mondo dei media vaticani? Quali linee-guida intende seguire?
«Il primo passo, prima ancora delle competenze pur necessarie, è quello di comprendere che tutti, proprio tutti, dai direttori agli uscieri, siamo discepoli solo se viviamo il lavoro richiesto nella forma del servizio e non dell’occupazione di ruoli. Se è facile attestare a parole la propria disponibilità, è comprensibilmente difficile poi vivere in questa prospettiva. C’è una sorta di fisiologica resistenza che si trasforma in “Si è sempre fatto così” oppure “Dopo anni di lungo servizio…”. Insomma la prima cosa in una riforma è cercare di far comprendere che quanto viene chiesto non è frutto di un pensiero personale, ma di due anni di lavoro di commissioni (per la verità è già dal 2000 che si sono avvicendate commissioni di studio) e di una decisione collegiale dei nove cardinali che aiutano il Santo Padre. Poi, certo, ci sono alcune linee a fare da guida, tra le quali la più importante è ripensare la comunicazione non secondo media distinti e verticalizzati, ma con un media hub (un centro unico di gestione integrata dei mezzi di comunicazione, ndr) e servizi orizzontali. Oggi abbiamo troppe duplicazioni tra le varie istituzioni che non aiutano la comunicazione e disorientano gli utenti. Ci vogliono quindi precisione nell’identificare gli obiettivi, e flessibilità ? non infinita ? per raggiungerli».
Testo di Giovanni Ferrò