N.11 2015 15 marzo 2015
Sommario 11 - 2015

Credere n. 11 - 15/03/2015

Insieme di don Antonio Rizzolo

Grazie, papa Francesco, per questi due anni insieme

Caro papa Francesco, questa settimana mi rivolgo direttamente a te dalle pagine di Credere. Per ringraziarti di questi due…

Due anni con Francesco | L'intervista

«Francesco ci ha insegnato l’arte dell’incontro»

Diego Fares è lo scrittore che il Papa consiglia di leggere ai giornalisti. Di Bergoglio dice: «Egli mostra come guardare…

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Due anni con Francesco | L'intervista

«Francesco ci ha insegnato l’arte dell’incontro»

Diego Fares è lo scrittore che il Papa consiglia di leggere ai giornalisti. Di Bergoglio dice: «Egli mostra come guardare gli altri negli occhi».

In foto: Padre Diego Fares.

In foto: Padre Diego Fares.

Oggi ci si confronta senza toccarsi. Si parla molto di “dialogo”, poco di “incontro”. Come se le persone fossero fatte di idee, ma non di carne e sangue, desideri, affetti. Papa Francesco insiste sul contrario. «Lui ci dice: quando fai l’elemosina, se non guardi negli occhi la persona, se non la tocchi e, invece, lasci la moneta e ti allontani, ti troverai a disagio». A spiegarcelo è il gesuita argentino Diego Fares, nuovo membro della casa degli scrittori di Civiltà Cattolica a Roma. Per lui il Papa è “padre Jorge”, che conosce da quasi 40 anni.

Figura inconsueta, il padre Fares: ha insegnato Metafisica in diverse università, ma al tempo stesso si è impegnato per 20 anni con un team di laici nel centro di accoglienza per adulti indigenti Hogar de San José (Focolare San Giuseppe) e nell’hospice per malati terminali Casa de la Bondad (Casa della Bontà). Ha il profilo intellettuale che piace a papa Francesco, in genere allergico agli accademici “puri”. Tanto che, sul volo di ritorno da Rio de Janeiro, consigliò a un giornalista di leggere «i libri di padre Fares». In italiano non sono ancora stati tradotti, ma ha firmato il volume Papa Francesco è come un bambù (Ancora, pp. 78, € 11).

Padre Fares, la maggior parte di noi non ha l’esperienza di “toccare” i poveri. Lei ha lavorato a lungo con loro: cos’è che si impara soltanto stando insieme a loro?

«Nella misura in cui uno si lascia ferire nella propria umanità dall’altro ferito, dalla sua infermità terminale o dall’esclusione sociale – che è anch’essa terminale – uno scopre l’allegria di poter compatire e che l’altro lo percepisca. Ed è questo che ci distingue dagli animali e dalle macchine».

È capitato che l’allora padre Jorge sia passato all’Hogar de San José?

«Nell’anno 2000, partecipavo come sempre alla Messa crismale del Giovedì santo. Mentre passavo a salutarlo mi disse, lì in mezzo alla moltitudine di sacerdoti, che quella sera sarebbe voluto venire all’Hogar de San José a lavare i piedi ai nostri ospiti, alla Messa dell’Ultima cena. Mi chiese di non farne pubblicità con i giornalisti, poiché prestavano molta attenzione a questi gesti “nuovi” che il cardinale aveva iniziato a fare l’anno prima, andando a lavare i piedi ai prigionieri del carcere di Devoto».

Come si svolse la celebrazione?

«Fu una cerimonia molto emozionante, della quale conserviamo solo qualche foto – a quel tempo non c’era ancora la moda dei selfie! – però la sua presenza ci rimase incisa nel cuore. All’unico giornalista che venne a conoscenza dell’evento e che lo aspettava fuori dell’Hogar, disse che le persone senza dimora “si meritavano una Messa come questa” e che lui “provava molto affetto per l’Hogar perché era stato fondato da un suo amico, padre Jorge Chichizola, gesuita”, al quale io prestavo aiuto. Tredici anni dopo, il giorno prima di partire per il Conclave, mi telefonò e mi disse che, prima di andare in pensione, desiderava trascorrere il suo ultimo Giovedì santo all’Hogar. Ricordo che mi disse: “Al ritorno ne parleremo e ci metteremo d’accordo”. Il Giovedì santo del 2013 non lo trascorse all’Hogar, ma già Papa, qui a Roma, con i giovani del carcere minorile Casal del Marmo».

Venne anche alla Casa de la Bondad?

«La Casa de la Bondad fa parte di Manos Abiertas, un movimento fondato dal gesuita padre Ángel Rossi, anch’egli grande amico del Papa, e raccoglie un’enorme quantità di volontari laici. Il cardinale Bergoglio donò una parte sostanziale dei fondi perché fosse costruita. Di fatto, le nostre opere di carità sociale – centri di accoglienza, case per malati terminali, focolari di anziani e bambini, centri di formazione, la Cooperativa di Lavoro Padre Hurtado... – sono frutto della formazione che Bergoglio diede ai giovani gesuiti quando fu maestro dei novizi, provinciale e rettore nella nostra tappa di formazione».

Lei è professore di filosofia. Papa Francesco raccomanda che la scienza sia “umana” e non “di laboratorio”. Come cambia il modo di conoscere stando a contatto con gli ultimi?

«In laboratorio non si pensa alla realtà che viviamo e costruiamo socialmente, tutti insieme, bensì a una realtà limitata all’ipotesi che si sta indagando. Le domande non sono le stesse quando le pone uno solo o quando, per esempio, facciamo un’inchiesta anonima all’Hogar e rispondono più di 100 persone che vivono in strada. Pensare a partire da ciò che questi nostri fratelli esprimono in totale spontaneità ci ha portato a modificare molti criteri che ci parevano ovvi».

Ad esempio?

«Tra l’infinita quantità di apprezzamenti e giudizi sinceri, sensibili e alcuni veramente geniali, ne ricordo uno di un socio della Cooperativa di Lavoro Padre Hurtado il quale intervenne in occasione della festa per i dieci anni di vita della Cooperativa... Si tenga presente che, almeno in Argentina, delle cooperative che si formano, dopo un anno ne sopravvive solo il 50% e dopo cinque anni solo il 20%. Ebbene, questo socio disse che nella Cooperativa condividevano molto e che nell’ultimo anno stavano condividendo “le perdite”. In realtà, proprio l’essere disposti a condividere le perdite è ciò che fa di noi una cooperativa, perché tutti sono capaci di condividere i profitti! Ricordo che in quel momento pensai: queste persone molto umili, che diedero vita alla Cooperativa condividendo tante difficoltà, sono progredite socialmente più di noi che cerchiamo di unirci per aiutarli.

È bene giudicare il progresso e la solidità di una società dalle perdite che è disposta a condividere. Nulla è più certo di ciò che dice papa Francesco: la realtà si vede meglio dalla periferia!».

Papa Francesco parla spesso di “cultura” e “popolo”. Li tiene insieme. Ma in Occidente sono opposti: ciò che è popolare, non è cultura. Forse la crisi del mondo dell’educazione sta proprio qui?

«“Cultura” è ciò che un popolo coltiva con amore, per condividerlo con gli altri e trasmetterlo ai suoi figli. Ciò che si condivide e si trasmette con amore è sempre importante. Io non farei distinzioni tra ciò che è “popolare” e ciò che è “colto”, bensì tra “valori comuni” – lo Spirito, secondo san Paolo, è ciò che è comune, mentre la carne è unicamente propria – e “disvalori” che si esauriscono nel proprio egoismo consumista».



Testo di Paolo Pegoraro

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