Credere n. 13 - 22/03/2015
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La corruzione «spuzza»
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Io che ho dato il volto a Cristo
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Verso la Pasqua
Io che ho dato il volto a Cristo
Celestino Fogliano è regista ed ex attore della Passione di Sordevolo, la rappresentazione popolare che ogni cinque anni, da due secoli, va in scena nel Biellese.
Quando a cinque anni faceva l’angioletto, Celestino Fogliano era talmente preso dalla parte che ogni volta inciampava nel vestito e cadeva. Oggi, cinquantacinque anni più tardi, è direttore e regista di quella stessa Passione che da subito l’aveva rapito. Lo incontriamo a margine di un pomeriggio di prove: a Sordevolo, paese di poco più di mille abitanti in provincia di Biella, sono già in corso da mesi i preparativi per il duecentesimo anniversario della rappresentazione teatrale popolare che, ogni cinque estati, fa rivivere a migliaia di persone il dramma degli ultimi momenti della vita di Cristo. “Cele” – come viene chiamato dai propri compaesani – da quel 1960 le edizioni della Passione le ha vissute tutte: nel 1970 era l’angelo del prologo iniziale, nel ’75 san Giovanni... Poi, per quattro edizioni, Gesù. Ma all’impegno come attore si era già aggiunto allora quello ben più faticoso all’interno del direttivo, che l’ha poi eletto direttore quindici anni fa.
«Nel 2005 però ho voluto interpretare ancora una volta Cristo perché mi veniva il magone a non farlo. Quel giorno diluviava, ma è stato troppo bello! Perché star dietro le quinte per me è un sacrificio: vorrei sempre essere tra gli attori, anche solo a fare il plebeo…». Ripercorre con nostalgia quei momenti Celestino, che in scena metteva tutto se stesso: «Cercavo di vivere il più possibile la parte, tanto da non accorgermi nemmeno di ciò che capitava attorno. Il momento della morte in croce era incredibile: arrivato quasi alla fine dell’ultima battuta, la maggior parte delle volte mi commuovevo veramente. Il pubblico probabilmente pensava fosse la messa in scena, ma in realtà la mia voce era davvero smorzata dalle lacrime: a un certo punto mi sembrava di vivere la parte al cento per cento».
È proprio questo ciò che Celestino, da regista, chiede in continuazione ai suoi attori, volontari non professionisti: «Nell’edizione 2015 vorrei che tutti loro riuscissero a recitare col cuore, e non con la testa, perché solo così è possibile trasmettere la carica emotiva del personaggio. In vista delle recite di giugno, luglio e agosto stiamo proprio curando in modo particolare questo aspetto: a volte basta una frase detta in un modo piuttosto che in un altro a lasciare allo spettatore qualcosa in più».
C’è un episodio che, a questo proposito, “il Cele” ricorda con particolare soddisfazione: «Un anno una signora americana ha iniziato a piangere alla flagellazione, e ha smesso alla resurrezione. Qualcuno provava a dirle di stare tranquilla, ma non c’è stato niente da fare: continuava a singhiozzare nonostante non capisse mezza parola di italiano».
Celestino, da attore, la potenza di quei momenti l’aveva sperimentata in prima persona. «La flagellazione la vivi con tale patimento che la battuta da dire subito dopo la trentanovesima frustata ti viene proprio naturale: sei realmente sollevato. La flagellazione è vera, i centurioni non fanno finta. Alla fine ti ritrovi sì ricoperto di strisce di sangue colorato, ma ogni tanto spuntano anche pezzetti di carne. Poi però arrivi a casa, ti lavi, dici “le ho prese!” e vai a bere con gli altri».
Già, perché quella della Passione di Sordevolo è una grande famiglia di amici che ogni cinque anni si ritrova a collaborare assieme per una decina di mesi. «In uno dei primi incontri», ricorda Celestino, «ho chiesto a tutti di metterci serietà, certo, ma anche serenità. È un’avventura da vivere bene, non come un peso, altrimenti non ha senso».
Il direttore non ha un attimo di riposo nemmeno al termine di ciascuna edizione: «Comincio subito a studiarmi i copioni, li rivedo, poi passo alle coreografie, alla promozione… È un impegno non indifferente. Ma non ne sento il peso, anzi, per me è naturale».
Forse perché anche lui, come tutti i sordevolesi, la Passione ce l’ha davvero nel dna: aveva raccolto il testimone dal bisnonno, Cristo dal 1860 fino al 1890, e l’ha riconsegnato al figlio nel 2000, nelle rappresentazioni dei bambini. Sua moglie invece dal 2005 è una delle tre Madonne: solo per poco non hanno calcato assieme la scena. Secondo i sordevolesi è proprio questa trasmissione familiare a mantenere viva la tradizione, interamente gestita da laici. «Ogni volta che ci si rimette in pista», conclude Celestino, «si è senza fondi. Per questo tutto il direttivo fa un mutuo, dà garanzie proprie per i 100 mila euro che servono per iniziare. Poi assieme si decide a quale opera di beneficenza destinare tutti gli utili». Un miracolo che continua da due secoli. Il segreto? «Io penso sempre che ci sia la mano del Padre Eterno, che ci mantiene con questo spirito».
Testo di Elisa Bertoli