N.15 2015 12 aprile 2015
Insieme di don Antonio Rizzolo

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Il personaggio | Rolando Garrido

Verso la nuova Cuba senza lasciare indietro gli ultimi

Rolando Garrido guida la Comunità di Sant’Egidio impegnata a Cuba mentre l’isola vive un cambiamento epocale: la caduta dell’embargo.

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Il personaggio | Rolando Garrido

Verso la nuova Cuba senza lasciare indietro gli ultimi

Rolando Garrido guida la Comunità di Sant’Egidio impegnata a Cuba mentre l’isola vive un cambiamento epocale: la caduta dell’embargo.

In foto: Il lungomare El Malecon a l'Avana.

In foto: Il lungomare El Malecon a l'Avana. 

Da qualche settimana, in piazza San Francesco, 128 statue di orsi fanno quadrato attorno all’antica fontana dei leoni: in occasione dell’happening per la pace in favore dell’Unicef, la piazza vicino al porto dell’Avana ha cambiato volto. Ma questo non è l’unico fermento dell’isola, Cuba si appresta infatti a vivere un cambiamento epocale: grazie anche alla mediazione di papa Francesco, lo scorso dicembre il presidente statunitense Barack Obama ha ammesso che «53 anni di embargo non sono serviti a nulla» e si è detto intenzionato a ripristinare rapporti economici e diplomatici regolari tra Stati Uniti e Cuba. Sull’isola si respira aria di cambiamento, anche se più di cinquant’anni di embargo hanno lasciato il segno.

Fra le realtà che operano a favore dei poveri e del dialogo interreligioso, c’è la Comunità di Sant’Egidio. Siamo andati a intervistare Rolando Garrido, 45 anni, chirurgo e guida della comunità.

Dottor Garrido, dalla rivoluzione castrista del 1959 la libertà religiosa ha sempre fatto fatica ad affermarsi. Ci racconta come è nata la sua fede?

«Mio padre lavorava al ministero degli Esteri e per questo motivo in famiglia non andavamo a Messa e non frequentavamo la parrocchia. Mia nonna era santera, un tipo di religiosità che ha radici africane. È stato a causa della sua insistenza che mio padre ha deciso che noi ragazzi dovevamo battezzarci. Avevo quindici anni: è accaduto lì, durante la preparazione al sacramento, il mio primo incontro con il Risorto, mi ha sedotto come dice il profeta».

Come si è avvicinato invece all’impegno sociale?

«Nel 1988 ho iniziato gli studi universitari iscrivendomi alla facoltà di Medicina. In quegli anni credere in Dio era piuttosto strano, eravamo in pochi a impegnarci in una testimonianza pubblica. Nonostante questo, io e un mio collega abbiamo deciso di dare vita al Movimento studentesco cattolico universitario, come mezzo per sostenerci l’un l’altro nel vivere la fede. Cercavamo di diffondere la parola di Gesù attraverso conferenze che trattassero temi affini al nostro percorso di studi, per essere in questo modo un piccolo germoglio del messaggio evangelico all’interno dell’ambiente universitario e della medicina».

Quando approda a Sant’Egidio?

«Nel bel mezzo del Periodo especial (lo stato di emergenza venutosi a creare a Cuba in seguito alla crisi dell’Unione Sovietica e dell’implosione dell’impero di Mosca, ndr) una delegazione della Comunità di Sant’Egidio visitò Cuba, fece una donazione all’ospedale pediatrico William Soler e chiese di incontrare i giovani cattolici. Mi chiamarono, e fu una grande occasione: ho conosciuto un cristianesimo vivo, in cui la parola amicizia abbracciava Dio, i fratelli e i poveri. Così ho iniziato, con alcuni amici, ad andare a trovare i bambini che vivevano nel quartiere La Colonia, nel municipio di Regla, che si trova nella parte nord di l’Avana. Percorrevamo circa dieci chilometri a piedi per stare con i bambini, visitarli e giocare con loro. Sentivamo che, nel vederli felici, ricevevamo la migliore delle ricompense. Questa amicizia mi ha portato a voler fare qualcosa per coloro che hanno bisogno, tanto che aiutare gli altri è diventato una parte di me stesso».

Oggi i centri di Sant’Egidio a Cuba sono cinque. Come è cresciuta la comunità?

«Sentivamo di voler essere protagonisti del nostro tempo, come aveva detto Giovanni Paolo II durante la visita sull’isola, così ci siamo lasciati interpellare dalle necessità. Abbiamo incontrato molti anziani soli. Mi ricordo di Julita, che era dovuta andare a vivere in un ospizio. Quando siamo andati a trovarla abbiamo scoperto la solitudine di tutti quelli che abitavano nella struttura. Così, lo stesso anno, abbiamo iniziato a fare visita a tre case di anziani situate nella capitale. Per loro era molto importante sapere che saremmo andati a trovarli abitualmente, noi ci nutrivamo delle loro esperienze di vita e loro venivano contagiati dalla nostra energia».

In cosa è impegnata, oggi sull’isola, la Comunità di Sant’Egidio?

«Un grande gruppo di giovani fa visita settimanalmente agli anziani».

Cosa significa per lei dare il suo tempo per gli altri?

«Se sono arrivato a essere una persona migliore è solo perché ho potuto incontrare nell’altro Gesù stesso. Tanti dicono che c’è poco tempo, che il lavoro e la famiglia occupano già le ventiquattro ore della giornata, eppure non è così. Stare vicino ai poveri mi ha aiutato anche nella mia professione: ora il mio punto di vista come medico è più umano. Ho potuto avvicinarmi alla debolezza e alla sofferenza del malato senza cadere nel falso pregiudizio, presente nella nostra società, che lo vede come pericolo contagioso o come numero o caso clinico. Ogni uomo è mio fratello!».

Come è organizzata la vostra comunità?

«Non prendiamo i voti, siamo uomini e donne comuni, crediamo che il Vangelo possa essere vissuto pienamente a prescindere dalla condizione di ognuno senza aggiunte, come disse Francesco d’Assisi: portare la buona notizia con gioia, comunicando a tutti l’amore di Dio. All’interno della Comunità vi sono molti responsabili sposati e con figli che partecipano allo stesso modo alle attività solidali e pastorali. Ci sono tra noi anche alcuni sacerdoti per l’animazione e la liturgia dei sacramenti. Il cardinale ci ha anche affidato una parrocchia».

Come procede l’impegno ecumenico per la pace?

«Durante questi anni abbiamo conosciuto molti leader religiosi con cui portiamo avanti una forte amicizia, un dialogo costruttivo e azioni di testimonianza: vivo è il rapporto con i pastori della Chiese presbiteriana, metodista, anglicana e pentecostale. La preghiera interreligiosa per la pace, che abbiamo promosso lo scorso settembre, ha preceduto la svolta nei rapporti tra Cuba e Stati Uniti. Il cardinale Jamie Lucas Ortega y Alamino, arcivescovo dell’Avana e protagonista, con papa Francesco, del riavvicinamento tra Stati Uniti e Cuba, ha parlato di “miracolo del disgelo”, di un muro, quello della diffidenza tra due Stati, “che sembrava incrollabile, ma nulla è impossibile a Dio!”. In comunione con le altre Chiese, ogni anno facciamo poi un pranzo di Natale, un momento in cui l’amore per i poveri ci unisce. A volte per strada, a volte in chiesa, come è tradizione a Roma in Santa Maria in Trastevere, distribuiamo anche i pasti ai poveri: fratelli appartenenti ad altri gruppi religiosi collaborano con noi e viviamo insieme l’ecumenismo della carità».

Dal 2014 organizzate anche la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Ce ne vuole parlare?

«Realizzare una Preghiera per la pace a Cuba sembrava utopico; sentivamo però che era necessario far vedere alla città che i leader delle religioni mondiali presenti a Cuba erano in grado di stare insieme e pregare per il bene comune e la pace. Per realizzarla abbiamo collaborato strettamente con i Focolarini, cercando ciò che ci unisce e lasciando da parte ciò che ci divide: il frutto di questo incontro è stato l’inizio di un’amicizia più profonda con musulmani, ebrei e buddhisti. Penso che la preghiera simultanea di ogni gruppo secondo il suo credo sia stato un fatto trascendentale e la notizia, tre mesi più tardi, della normalizzazione delle relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti ci spinge a continuare a pregare per la pace». La Preghiera per la pace avrà un seguito negli anni futuri o è stato un evento isolato? «Il nostro desiderio è che questo evento si realizzi tutti gli anni all’Avana perché riteniamo che sia un modo per non lasciare morire lo spirito dell’evento di Assisi, che tanta eco e tanta approvazione ha avuto presso la gente».

Cosa pensa di papa Francesco?

«Il primo Papa latinoamericano, una sorpresa per tutti! Un uomo di preghiera, un cristiano che dedica molto tempo ad “abitare” la Bibbia: ascoltarlo è sempre un arricchimento di fede. Vedo Francesco come il Papa dell’incontro, un uomo che incontra e si lascia incontrare, un Papa vicino alla gente, un Papa anziano che ha ringiovanito la Chiesa, che vuole una Chiesa povera per i poveri, che esorta alla solidarietà disinteressata e gratuita».

Testo di Antonio Tarzia

Traduzione di Alice Cecconello

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