N. 16 21 luglio 2013
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Se la Bibbia fa audience in televisione

Negli Stati Uniti e in Italia le serie dedicate alla religione hanno successo. Per Armando Fumagalli, esperto di fiction, piacciono perché parlano a tutti...

 

Fiction italiana: Sant'Agostino

«È come se esistessero due Americhe: una televisiva e un’altra reale». Non ha dubbi Armando Fumagalli, direttore del Master in scrittura e produzione per la fiction e il cinema presso l’Università Cattolica di Milano: spesso quella che vediamo rappresentata sugli schermi è una società molto diversa da quella effettiva.  «In televisione la religione è stata praticamente cancellata e sono gli stessi americani a sostenere di non rispecchiarsi in quel che vedono. Salvo rarissime eccezioni». Questo spiega la ragione del successo di The Bible (la Bibbia): titolo evento della scorsa estate, su History Channel, il canale dedicato ai documentari, ha toccato gli 11 milioni di spettatori polverizzando serie come The Walking Dead e The Mentalist. E adesso si prepara a debuttare anche sulla Nbc: il network radiotelevisivo ha acquistato i diritti del sequel, intuendo l’enorme potenziale del genere religioso.  Nel frattempo, si lavora anche al progetto The Vatican (Il Vaticano), diretto da Ridley Scott.

The Bible

E così l’America si scopre credente?

Armando Fumagalli«Lo è sempre stata. Basti pensare che, stando a un’indagine condotta pochi anni fa, oltre il 90% della popolazione americana si dichiara credente e il 40% va settimanalmente a una funzione religiosa. In Italia la percentuale scende al 20%: praticamente gli americani frequentano la chiesa il doppio di noi! Si tratta di un dato inoppugnabile, eppure non emerge mai dalle loro televisioni».

C’è chi sostiene che questo scollamento tra America reale e mediatica sia frutto del lavoro di una lobby, decisa a realizzare titoli agnostici, se non anticlericali. Si tratta solo di fantapolitica?

«Toglierei al termine “lobby” qualsiasi connotazione occultistica. Il fatto è che, in tutti i Paesi, la tv è fatta da piccole minoranze e non c’è un motivo per cui queste debbano necessariamente essere rappresentative dell’intera popolazione. In America tale minoranza è composta da un gruppo di persone dislocato a New York e Los Angeles, dallo status economico alto, con alle spalle vite familiari abbastanza frantumate e un’educazione non religiosa».

Quale aspetto di The Bible ha conquistato gli americani?

«Semplicemente l’argomento. La critica, infatti, non ha definito The Bible un prodotto di qualità: la storia non è particolarmente elaborata, tende a essere episodica e punta sull’aspetto dell’azione più che sulla profondità dei personaggi. Eppure, proprio perché si rivolge alla maggioranza della popolazione, che è religiosa, ha ottenuto ascolti altissimi».

In cantiere c’è anche The Vatican. Che genere di storia dobbiamo aspettarci?

«L’impressione è che il Vaticano sia una realtà molto lontana dall’America e spesso chi fa televisione si nutre, più che di fatti storici, di altri tipi di racconti. La serie non è stata ancora ultimata, quindi è difficile dare giudizi, ma credo sia un’interpretazione della Chiesa “alla Dan Brown”, con retroscena coloriti non sempre documentati».

Fiction italiana: Era santo, era uomo

Come può la televisione restituire un’immagine veritiera della fede, dato che il mezzo è votato alla spettacolarizzazione?

«La televisione non può certo evangelizzare il mondo, ma può svolgere un lavoro culturale di pre-evangelizzazione e di semina di buoni valori. Per farlo, bisogna puntare non alla spettacolarizzazione ma alla drammatizzazione della storia, a comunicare  l’intensità di un’esperienza profonda. È un traguardo raggiungibile: fiction italiane come Maria di Nazareth o Sant’Agostino sono riuscite ad andare incontro a un pubblico vasto senza stravolgere i fatti storici».

In Italia la religione è un genere di successo. Ma, a nostra volta, non cediamo anche noi alla semplificazione e al folklore, eccedendo in storie di santi e martiri, a scapito di quelle intime e più comuni?

«La fede è sempre un fatto privato e pubblico allo stesso tempo: è un’esperienza personale che ha dei riflessi sociali e pubblici. Esistono tipologie diverse di racconto che si concentrano su differenti profili di esistenza. Le miniserie sono dedicate a personaggi straordinari. Le serie lunghe (da 12 episodi e oltre, ndr) raccontano invece personaggi più comuni, dove si possono innestare delle dimensioni di fede. Per ora si è riusciti a farlo solo passando attraverso la figura di religiosi (fiction come Don Matteo, Che Dio ci aiuti, ndr), ma mi auguro che in futuro si riesca a utilizzare anche persone comuni che, come tanti italiani, vivono una dimensione religiosa dell’esistenza».

Fiction italiana: Don Matteo

Foto di GIANLUCA BENEDETTI / PHOTOSTUDIOGUBBIO

Testo di Francesca D'Angelo

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