N. 19 2015 10 maggio 2015
Sommario 19 - 2015

Credere n. 19 - 10/05/2015

Insieme di don Antonio Rizzolo

Grazie a tutte le mamme, testimoni dell’amore

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La storia

Il piccolo profugo nato in mare trova casa

La mamma l’ha partorito a bordo della nave Orione dopo che la Marina militare li aveva salvati dalle onde del Mediterraneo. Ora lui e i genitori sono stati accolti nel centro di prima emergenza della Comunità papa Giovanni XXIII a Reggio Calabria, dove i volontari cercano di star loro vicino: «Hanno sofferto molto».

In foto:I neogenitori, di origine eritrea, con il loro bambino.

In foto: I neogenitori, di origine eritrea, con il loro bambino.

Il momento del parto dovrebbe essere uno dei più belli e indimenticabili nella vita di una madre e di un padre. L.G., di origine eritrea, lo ha vissuto alcuni giorni fa di notte, a bordo della nave Orione della Marina militare, che la stava trasportando insieme a suo marito a Reggio Calabria.

Così A.G., dopo aver affrontato nel grembo della mamma un viaggio difficilissimo, in fuga dal suo Paese, è venuto alla luce nel buio, circondato da marinai che hanno preparato una culla di fortuna, usando una scatola foderata di coperte termiche. I neo-genitori e il loro piccolo sono fra le prime persone accolte nella casa di prima emergenza per i minorenni che l’associazione Comunità papa Giovanni XXIII ha aperto a Reggio Calabria “in corsa”. Sì, perché «la struttura deve essere ancora completata e inaugurata ufficialmente, ma ci è stato chiesto di aprire le porte in anticipo a fronte dei numerosi sbarchi e di situazioni particolarmente delicate, come quella di questa famiglia e di H., gambiana dodicenne, che ha assistito al naufragio nelle acque libiche del gommone su cui viaggiavano i genitori e la sorella», riferisce Giovanni Fortugno, 51 anni, animatore del Servizio immigrazione della Comunità papa Giovanni XXIII e responsabile della casa di accoglienza che in futuro sarà destinata a 14 minori non accompagnati, «oltre a persone in situazioni particolarmente delicate. Due sale serviranno per i corsi di formazione: coltiviamo il sogno di avviare progetti d’integrazione per aiutare questi ragazzi a crearsi un futuro, collaborando in rete con il Comune e le scuole del territorio. Il nostro fondatore, don Oreste Benzi, ci invitava alla condivisione diretta, a farci carico delle persone in difficoltà finché non abbiano trovato la loro strada».

Per Giovanni, questo non è un lavoro ma una missione. Anni fa ha deciso di lasciare il posto di direttore commerciale in una multinazionale per dedicarsi completamente con la moglie Vittoria alla loro famiglia (cinque figli naturali e sette in affido, il più piccolo dei quali ha otto anni e una grave disabilità) e alla Comunità, in particolare ai fratelli e sorelle migranti che arrivano in Calabria e in Sicilia. «A Reggio, dopo aver siglato un protocollo d’intesa con la Prefettura, la Caritas ha costituito il Coordinamento diocesano per gli sbarchi, a cui aderiamo insieme a Migrantes, missionari Scalabriniani, Movimento adulti scout cattolici italiani (Masci) e altre realtà», racconta.

Un lavoro di squadra ben rodato, visto che lo scorso anno a Reggio Calabria sono approdati quasi 20 mila migranti. «Non mancano le fatiche, ma insieme andiamo tutti i giorni a sporcarci le mani», nota Fortugno. «La risposta che si dà alle situazioni che ci provocano nella fede è sicuramente più incisiva, perché corale, ecclesiale, comunitaria: don Oreste ne era convinto». Intanto nella casa di accoglienza della Giovanni XXIII – un progetto sostenuto dalla fondazione Migrantes della Cei, da Caritas e Migrantes dell’arcidiocesi di Reggio Calabria-Bova e dall’arcivescovo Giuseppe Fiorini Morosini – la famiglia eritrea si sta lentamente ambientando: «Parlano soltanto la lingua tigrina e per comunicare ci affidiamo ai mediatori culturali», riferisce Fortugno. «Sono cristiani copti e dopo qualche giorno ci hanno chiesto una Bibbia in inglese. Hanno sofferto molto in Libia e tendono a chiudersi, ma è comprensibile per quello che hanno passato. La mamma era sfinita e molto magra, piano piano si sta riprendendo e anche suo marito; il piccolo sta bene, dopo lo sbarco è stato trasportato con i genitori in ospedale. Ora mi sembrano più sereni».

Giovanni li incontra quotidianamente: «Appena arrivo in casa, il papà si avvicina e viene a stringermi la mano. Hanno bisogno di tempo: quando arrivano sulla nostra costa non sanno dove sono approdati, non hanno idea della loro collocazione geografica. I volontari e gli operatori della Comunità svolgono anche un lavoro cognitivo, per dare loro le coordinate del luogo in cui si trovano ora a vivere».

In questo percorso inedito per la propria esistenza, infatti, la giovane famiglia eritrea non è sola: nella casa di accoglienza vivono, 24 ore su 24, Claudio, che ha alle spalle sette anni di missione in Bangladesh e Sri Lanka; Adriana, 82 anni, che è stata nella foresta amazzonica e ha una grande esperienza pedagogica; Bruna, laureata in antropologia dei popoli, già stata in Grecia e Bangladesh; Maria, già volontaria in Palestina e Costa d’Avorio. «Come facciamo? Abbiamo un motore alimentato dalla fede. Proprio per questo nelle nostre case abbiamo una cappellina con il tabernacolo, un rifugio e un sostegno nelle difficoltà». In questa neonata casa di accoglienza la cappella verrà decorata dall’artista Paolo Campolo: «Si ispirerà al tema del popolo», anticipa Giovanni. «Spesso lo scultore elabora e sviluppa i suoi progetti insieme alle persone disabili che frequentano un centro diurno gestito sempre dalla Papa Giovanni XXIII, confidando nelle risorse creative della loro diversità». Spazio anche alla bellezza, dunque, in un luogo da cui ricominciare a tessere fili di speranza.


Testo di Laura Badaracchi

Foto di Giorgia Foti - Antonia Messineo / Servizifotografici.net



 

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