N. 24 - 2015 14 giugno 2015
Sommario 24 - 2015

Credere n. 24 - 14/06/2015

Insieme di don Antonio Rizzolo

Quell’idea “buttata lì” che cambia la vita

Cari amici lettori, la storia di copertina di questa settimana è molto “estiva”: parliamo dei The Sun, un gruppo di musica…

La storia di copertina | Christian Rock

The Sun: fede, amore e rock & roll

Dalla trasgressione alla testimonianza: nati come gruppo punk, oggi i The Sun sono la christian rock band più affermata d’Italia

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La storia di copertina | Christian Rock

The Sun: fede, amore e rock & roll

Dalla trasgressione alla testimonianza: nati come gruppo punk, oggi i The Sun sono la christian rock band più affermata d’Italia

 

L’entusiasmo contagioso dei The Sun sul palco!

 

L’entusiasmo contagioso dei The Sun sul palco!

«Tacere è un più lento morire / Un assenso che uccide / È il male del nostro tempo». È un passaggio della struggente Le case di Mosul, il singolo che annuncia Cuore aperto, l’imminente nuovo album dei The Sun, la band di christian rock più nota in Italia. Toccare la tragedia dell’Iraq in una canzone non è usuale. Ma i The Sun – Francesco Lorenzi, voce, Gianluca Menegozzo, chitarrista, Matteo Reghelin al basso e Riccardo Rossi, batterista – hanno abituato da tempo i fan alle sorprese. I quattro vicentini sono nati, infatti, come Sun eats hours (Il sole mangia le ore) nel 1997. Facevano musica punk ed erano uno dei complessi più affermati in quel mondo. Nel 2008 la svolta, determinata da una profonda conversione religiosa. Cambiano nome, genere musicale e, soprattutto, obiettivi: dalla trasgressione alla testimonianza. Nascono così gli album Spiriti del sole e, nel 2012, Luce, entrambi prodotti dalla Sony. A pochi giorni dall’uscita del nuovo disco e dal concerto in piazza San Carlo a Torino il 19, in vista dell’arrivo di papa Francesco, Credere ha incontrato Francesco Lorenzi. Trentatré anni, un volto ancora da ragazzo, è lui l’anima dei The Sun.

Partiamo dal videoclip de Le case di Mosul. Come nasce la decisione di occuparsi della guerra in Iraq e della sorte dei cristiani perseguitati?

«L’estate scorsa sono rimasto sconvolto dall’omicidio del professor Mahmud Al ’Asali, docente all’Università di Mosul. Intellettuale musulmano esperto in diritto, venne ucciso dagli estremisti dell’Is di fronte agli studenti. La sua colpa era di aver difeso – Corano alla mano – i diritti dei cristiani. Ho pianto e quella stessa notte ho scritto la prima parte del brano. Poi mi sono reso conto che attacchi come quello non sono un fenomeno isolato, ma che c’è un disegno simile a quello nazista. Ed è mostruoso che non se ne parli. Troppo facile scrivere le canzoni contro i dittatori dopo che sono morti; credo invece che l’arte abbia anche il compito di risvegliare le coscienze. A novembre 2014 abbiamo fatto una settimana di deserto nel Neghev. Un giorno, a Masada, uno dei preti che ci accompagnava ha condiviso alcune riflessioni sul martirio dei cristiani: ci siamo sentiti complici di questo silenzio. Così è nata la decisione di includere Le case di Mosul nel nuovo disco».

«Lame e bombe / Non ne voglio più», dice la canzone. Un urlo contro tutte le guerre…

«È così. A Natale mia cugina mi regalò La guerra dei nostri nonni (Mondadori) di Aldo Cazzullo. Leggendolo, mi sono reso conto che le due guerre mondiali che l’Italia ha vissuto non sono state meno brutali di quanto accade oggi in Iraq e Siria… Ripensando alle storie dei miei nonni, ho capito che sotto le bombe ci si accorge del non senso della violenza e si sente una necessità profondissima di compassione. Loro l’hanno sperimentato col sangue. E noi?».

Ne parlate anche nel nuovo album…

«Cuore aperto declina le varie destinazioni dell’amore: verso se stessi, gli altri, la famiglia, Dio, il creato. Le parole-chiave? Amicizia, contemplazione, gratitudine. Ma a tenere insieme tutto è la fede, che dà la possibilità di leggere la realtà in modo nuovo».

Avete cominciato a suonare a 14-15 anni. Dieci anni dopo eravate sulla cresta dell’onda: cos’è accaduto, poi?

«Tra il 2006 e il 2007 abbiamo fatto oltre 100 concerti in una decina di Stati, ma poi il divertimento è scivolato negli eccessi: alcol, droga e sesso. Quel modo di vivere ci ha disgregati. Poi, per fortuna…»

Un incontro straordinario nell’ambiente più ordinario: una parrocchia. Racconta.

«Siamo a fine 2007. A 25 anni avevo realizzato molti dei miei sogni, eppure non ero felice. Avevo capito che era tempo di togliermi la maschera, ma non sapevo dove sbattere la testa… Una sera mia mamma butta lì: “C’è un incontro in una parrocchia vicina che potrebbe fare al caso tuo”. Non andavo in chiesa da 10 anni. Dissi a me stesso: “Proviamo, ma se dopo 10 minuti mi rompo, me ne vado”. E invece sono rimasto».

Perché?

«Era un corso sulla parola di Dio, promosso dalla Scuola di evangelizzazione Sant’Andrea. Mi colpì molto il racconto della vicenda di Gesù attraverso gli occhi di san Giovanni, messo in scena da un gruppo di giovani che si alternavano sul palco in maniera tutt’altro che “parrocchiale” (lasciatelo dire a un animale da palcoscenico). Lo vedevi che era gente che ci credeva, con una marcia in più. E stavano bene insieme. Alla fine della serata ero contento, ma arrabbiato con me stesso nel toccare con mano i preconcetti che avevo dentro».

Quegli stessi pregiudizi che tengono lontani molti giovani dalla Chiesa, no?

«Sì, anche se oggi con papa Francesco qualcosa è cambiato. “Con l’anello del Papa si sfama l’Africa intera” oppure “I preti sono tutti pedofili”: quante generalizzazioni mostruose si sentono! Nel 2013 abbiamo collaborato con il Pontificio consiglio della cultura a uno studio sulle culture giovanili. Sulla base della nostra esperienza, utilizzando i social media e il mio blog, abbiamo verificato che sono molto diffusi stereotipi e pregiudizi sulla fede, il che rovina la possibilità di incontro con Gesù a tantissime persone. La realtà della Chiesa è molto diversa da quanto raccontano i media».

Ma se tanti giovani non si avvicinano alla fede qualche mea culpa dovremo pur farcelo…

«Certo! I giovani chiedono fondamentalmente di fare esperienze significative e incontrare testimoni entusiasti. E invece negli ambienti ecclesiali talvolta regna la tristezza. A mandare in bestia i giovani è la mancanza di risposte argomentate alle loro domande. Non vogliono soluzioni preconfezionate, bensì qualcuno che mostri che crede a quanto annuncia e che lo vive».

E tu, come hai fatto, una volta convertito, a “trascinare” i tuoi compagni alla fede?

«È stato un percorso lungo e molto doloroso: lo racconto nel libro La strada del sole: edito da Rizzoli, ha la prefazione del card. Ravasi e sta conoscendo notevole successo sia in Italia che all’estero. Il Vangelo è una missione e la prima forza è l’esempio. I miei amici hanno iniziato a vedere che stavo cambiando vita. All’inizio pensavano che fossi uscito di testa, ma poi sono riuscito a parlare con ciascuno di loro e a far loro iniziare un percorso di rinnovamento. Ci ha salvati l’amicizia tra noi e l’aiuto di alcune persone che ci sono state molto vicine. Ma ci sono voluti anni perché riprendessimo a suonare insieme».

Oggi andate a gonfie vele. Non c’è il rischio che il successo dia alla testa?

«Il rischio c’è sempre. Ed è per questo che bisogna essere assidui nella preghiera, nei sacramenti e nel confronto con il proprio padre spirituale».

Chi è il tuo?

«Ne abbiamo più di uno. Innanzitutto don Massimo D’Abrosca, parroco a Sasso Marconi. Guida spesso pellegrinaggi in Terrasanta: ci ha conosciuto grazie a un prete di Betlemme. Poi ha organizzato un concerto a Bologna ed è nata una grande amicizia. Altri che si prendono cura di noi? Don Andrea Segato, prete diocesano di Padova, sulla cinquantina, uno che fa miracoli nella vita di tante persone. E infine padre Gabriele Pedicino, frate agostiniano, di stanza a Tolentino, dove si trova il grande convento di San Nicola».

Non fumi e hai smesso di mangiare carne. Perché?

«Non è obbedienza a una moda: tutto è iniziato sei anni fa, in coincidenza col mio risveglio spirituale. L’empatia con il creato ci deve interpellare rispetto alle scelte quotidiane: dobbiamo chiederci da dove viene il cibo che consumiamo e cosa comporta il nostro benessere per il futuro del pianeta e di tanti popoli. Per questo attendo con grande interesse l’enciclica del Papa sull’ecologia».

Oggi non siete più ragazzini, avete messo “la testa a posto” come direbbero le nonne. Oltre ai progetti musicali, stanno maturando anche progetti di vita?

«Cuore aperto è il primo disco da trentenni. Sentiamo che è in atto una maturazione nelle nostre vite, pur restando fedeli a una giovinezza che fa parte del nostro modo di essere. Confermo: ci sono in cantiere anche scelte importanti di vita».

Te la senti di dire che con Dio è tutta un’altra musica?

«Assolutamente sì. Tutta un’altra musica e tutta un’altra vita. Per questo lo ringrazio ogni giorno».

Testo di Gerolamo Fazzini

Foto di Silvia Dalle Carbonare

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