N. 32 - 2017 6 agosto 2017
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Irene Panarello

In Giordania per coltivare la pace

All’Arsenale dell’incontro di Madaba si occupa di ragazzi e bambini disabili: «Aiutare i più deboli facilita l’incontro anche fra chi professa fedi diverse»

Irene Panarello è tornata in Giordania l’8 luglio. Ha lasciato l’Arsenale della pace di Torino e ha raggiunto l’Arsenale dell’incontro di Madaba, alle porte di Amman, nel quale lavora e vive dal 2012. Trent’anni ? ma ne dimostra meno ? Irene fa parte della Fraternità della speranza, una comunità mista di famiglie, laici e consacrati nata all’interno del Sermig, il Servizio missionario giovanile fondato da Ernesto Olivero nel 1983. «Sono di Milano e ho studiato facendo la spola tra l’università della mia città e Torino. Prima ho fatto Mediazione linguistica e culturale, poi Cooperazione allo sviluppo a Scienze politiche», racconta.
A Milano Irene conduceva una vita “normale” fatta di sport, un assiduo impegno scout, e tanti viaggi in compagnia dei suoi genitori. Così in lei s’insinua il “tarlo” della curiosità: vuole toccare con mano la diversità, sentire il profumo e il sapore di ciò che una lezione di geografia non può offrire. «Del Sermig avevo sentito parlare da un ragazzo del mio gruppo scout. Poi quando sono venuta a Torino a studiare ho fatto due più due: era la mia occasione».

IL FASCINO DEL SERMIG
Irene si è laureata con una tesi dal titolo La povertà e l’esclusione sociale nei batey della Repubblica Domenicana. I batey sono villaggi-ghetto dove vivono, in condizioni al limite dell’umano, coloro che tagliano la canna da zucchero, che sono quasi tutti haitiani. Nella Repubblica Domenicana si ferma per un anno, poi altri periodi più brevi per raccogliere dati sulla tesi. «È stata un’esperienza intensa, ma mi mancava sempre qualcosa: volevo fare e dare di più. L’idea di una vita consacrata però è venuta dopo, quando ho capito che la felicità che sentivo era legata alla possibilità di contribuire a costruire un mondo di pace. Non avevo ancora 24 anni, ma questo mi era chiarissimo». Infatti con il Sermig è stato amore a prima vista. «Quando sono entrata mi sono sentita a casa. Era il 2008. Ho avuto la netta sensazione che al Sermig si vivesse l’attenzione per la pace e per la giustizia tra i popoli: ho trovato quello che avevo nel cuore». In greco Irene significa “pace”, e oggi vedere questa giovane inserita in una comunità che ha fatto della ricerca della pace tra i popoli la propria ragione sociale, strappa un sorriso. «Nella mia testa non c’era un’opzione così radicale. Conoscendo l’Arsenale mi sono accorta di essere felice».
All’inizio frequenta la preghiera del martedì e una volta alla settimana dà una mano alle attività che animano il centro. «Poi ho fatto un campo di formazione e da lì la mia frequentazione è cresciuta», prosegue.

IL SOSTEGNO DEI GENITORI
Tra amici e parenti qualcuno ha fatto più fatica di altri a capire la scelta. «All’inizio c’era un po’ di stupore, ma poi chi ha avuto il desiderio di conoscere le ragioni della mia decisione ne ha condiviso il senso profondo». I genitori di Irene non sono credenti, ma la scelta della figlia non li spiazza del tutto; i segnali arrivati fino a quel momento erano tanti e tutti andavano verso la stessa direzione. «Mi hanno detto: “Se tu sei felice, noi siamo felici con te”. Sono figlia unica, so che per loro non è stato e non è facile, ma ho una profonda gratitudine nei loro confronti».
A quel punto è iniziato il lavoro di discernimento e servizio, e oggi Irene è quasi alla fine del suo percorso verso la consacrazione.
Nella sua storia un ruolo determinante lo ha Ernesto Olivero, colui che ha pensato e fatto crescere questo progetto di pace. «Per me è un amico, la persona che ogni giorno dà a me e a tutta la Fraternità un’indicazione per imparare ad amare sempre di più e a entrare nella logica di Dio, che non è la nostra. Conosce il mio cuore, so che in qualsiasi momento posso contare su di lui».

LA CHIAMATA PER LA GIORDANIA
Per Irene la possibilità di andare a lavorare in Giordania si è concretizzata nel 2011. «Bisognava accompagnare dei volontari. Tre settimane, non di più. Nel 2012 mi è stato chiesto di fermarmi qualche mese, e ora sono più in Giordania che in Italia». L’Arsenale di Madaba è dedicato a bambini e ragazzi con disabilità. «La nostra storia con la Giordania ha radici solide di cooperazione, ma a un certo punto ci è stato chiesto di rimanere e di non fare più solo la spola con l’Italia. Abbiamo deciso di accettare. Quasi il 13 per cento della popolazione giordana è disabile fisico o psichico, e i servizi di supporto sono pochissimi. Si tratta di una sofferenza che unisce tutti, musulmani e cristiani. Per favorire il dialogo fra le persone non servono discorsi: aiutare i più deboli, invece, facilita l’incontro». I ragazzi e i bambini sono il canale di un avvicinamento che altrimenti non ci sarebbe. «Ci danno l’occasione per guardarci con occhi diversi, come persone che, pur non professando la stessa fede, possono vivere la fratellanza: tutti condividiamo la stessa fatica e lo stesso desiderio di bene».
L’Arsenale accoglie tutti i giorni circa 250 bambini e ragazzi. Un centinaio vanno per la scuola, per gli altri sono invece previste sedute di logopedia, fisioterapia, terapia occupazionale e sostegno scolastico. Poi, come tutti gli Arsenali, è una casa aperta alle necessità del territorio. Ora è il momento dei profughi. «Tanti sono iracheni, spesso curdi e siriani. Abbiamo avviato un servizio gratuito di ambulatorio medico in collaborazione con l’università americana di Madaba, compreso un servizio di farmacia. Il lavoro qui non manca di certo».

Testo di Sante Altizio

 

 

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