N. 39 2014 28 settembre 2014
INSIEME di don Antonio Rizzolo

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Aleppo, il dramma

Rimango nell’inferno con chi non può scappare

Padre Joseph Bazouzou, parroco della Santissima Trinità di Aleppo: «La gente condivide lo stesso destino dei martiri della Chiesa»

 

Aleppo inferno

Foto BARAA AL

Parla piano e ogni tanto la voce gli si strozza in gola. Accade quando racconta di persone che conosce, di famiglie, della sua gente. Padre Joseph Bazouzou, sacerdote armeno cattolico e parroco nella chiesa della Santissima Trinità di Aleppo, è nato e cresciuto proprio ad Aleppo. Lì ha riconosciuto la sua vocazione. Nella città della Siria settentrionale vive ancora sua madre, troppo anziana per farla andar via, mentre fratelli e sorelle sono tutti scappati in Libano.

Lui è rimasto. Aleppo e la parrocchia sono la sua casa, l’unico posto in cui riesce a vedersi. Ora più che in passato. Nella visita di due settimane a Roma padre Joseph non ha mai smesso di darsi da fare per la sua gente. Incontri, appuntamenti, colloqui per descrivere una Siria martoriata da tre anni di guerra. Aleppo è una città in cui musulmani e cristiani hanno sempre convissuto pacificamente e ora, insieme, tentano di sopravvivere all’inferno che coinvolge tutti, indipendentemente dal Dio in cui si crede.

«La mia parrocchia accoglieva prima della guerra 300 famiglie. Cattolici e ortodossi sono abituati a pregare insieme e a condividere la chiesa e gli spazi. Ora le famiglie rimaste sono circa 100. Le altre sono scappate o ci stanno provando. Aiutiamo 30 famiglie musulmane. La gente ha bisogno di tutto e noi cerchiamo di essere vicini a ciascuno con i pochi mezzi di cui disponiamo», dice padre Joseph. «In città, in questo momento, l’acqua nelle case c’è per due ore al giorno, così come l’elettricità che c’è solo la sera per un massimo di tre ore». La gente è allo stremo. Chi aveva soldi e mezzi è riuscito a scappare affidandosi a trafficanti che promettono di portarli fuori dalla Siria. In base a quanto si è disposti a pagare, la meta finale può essere il Libano, l’Europa o persino l’America: «Sono rimasti i poveri», sospira il sacerdote, «quelli che non hanno alternative alle bombe, alla guerra, alla fame, alla paura».

Per far capire dove si trova la sua parrocchia padre Joseph prende un foglio bianco e fa un disegno con la penna. Una croce indica la chiesa e poi vicino traccia due linee che si intersecano. Le linee rappresentano il fronte dei ribelli. «Siamo vicinissimi alla zona dei combattimenti, nel cuore della guerra. Sentiamo le bombe, gli scoppi delle armi da fuoco», continua il sacerdote. Un mese fa nel cortile della parrocchia è esplosa una bombola del gas. È stata lanciata manualmente: «Impari a capire che, per quanto si usino armi sofisticate e tecnologie avanzate, la guerra ha in sé un che di brutale e primitivo». La bombola ha distrutto l’unica automobile della comunità, oltre che terrorizzare la gente che era lì. Il giorno dopo, quando ha ripulito il piazzale del cortile, ha chiamato i suoi parrocchiani e nel cratere lasciato dall’esplosione ha piantato un albero d’ulivo. «Bisogna piantare semi di pace, ovunque e ogni volta che ne abbiamo la possibilità. Ci stanno distruggendo tutto, anche il futuro. Cominciano a esserci bambini che sono nati e vissuti in guerra. Piccoli che non hanno mai conosciuto la pace. Li riconosci: non so come spiegare, ma è come se trasudassero paura. E io non smetto di piantare semi. Le scuole sono chiuse o distrutte dalle bombe, ma non ci arrendiamo, facciamo la scuola in parrocchia. Purtroppo non possiamo stare nelle sale o in cortile, saremmo troppo esposti alle bombe. Raduniamo i ragazzi negli scantinati: è più sicuro».

La parrocchia accoglie una cinquantina di bambini al giorno: «Insegniamo loro i numeri e le lettere. E poi disegni, canti e giochi. Ce la metto tutta per far credere loro che lì dentro la guerra non c’è e che quando stanno in parrocchia sono al sicuro… Ma non è facile». I siriani, dice il parroco, sono un popolo martoriato, ma mantengono una grande dignità. Hanno bisogno di tutto, ma non chiedono o meglio non lo fanno come ci si aspetterebbe. «Vengono a domandare se abbiamo bisogno di qualcosa, di un aiuto e allora capisci che sono in difficoltà. Io propongo loro un piccolo lavoro o un servizio da fare in parrocchia, di sistemare, pulire, mettere in ordine e poi do loro la ricompensa per la prestazione». «Pago molto bene, eh?», un sorriso gli illumina il viso tondo e ci tiene a spiegare che questo è un rito fondamentale che rappresenta molto di più di un aiuto per far fronte alle necessità di tutti i giorni.

In questo modo le persone cercano di sopravvivere allo stato di prostrazione e umiliazione in cui le riduce la guerra. Un padre di famiglia che ha sempre lavorato per mantenere i suoi figli oggi non lo può fare ad Aleppo. La popolazione è allo stremo non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. «Noi aiutiamo, ascoltiamo, parliamo, preghiamo moltissimo. L’unica cosa che sembra darci ristoro è la preghiera. La popolazione sente di condividere il destino con i martiri della Chiesa. Vive in questa dimensione di grandissima sofferenza e fede insieme. Sono un esempio incredibile. Oggi in Siria Dio ha il volto di ciascuno dei miei parrocchiani. Talvolta ci sentiamo sopraffatti. Vorremmo chiedere alla comunità internazionale di impegnarsi al massimo per fare smettere la guerra e di creare canali umanitari per i tanti siriani che non possono più restare qui». L’appello di padre Joseph all’Europa è forte: «Non pensate agli adulti, pensate ai bambini. Sono morti moltissimi piccoli, altri non nasceranno mai. In Siria ci vorranno almeno 50 anni prima che ci sia una nuova generazione. Fate quanto in vostro potere per fermare il massacro e date modo alle famiglie di mettersi al sicuro».

Testo di Donatella Parisi

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