N. 39 2014 28 settembre 2014
INSIEME di don Antonio Rizzolo

La fede cristiana non è un’ideologia

Cari amici lettori, la fede cristiana non è un’ideologia né lo deve diventare. ...

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Fede e testimonianza

Così sono diventato prete nell’atea Albania

Padre Zef Bisha, primo gesuita albanese, oggi è parroco a Tirana, dove il Papa è appena andato in visita. Una chiamata negli anni duri della dittatura, fra divieto a vivere la fede e chiese usate come discariche.

 

Albania, la visita del Papa

Foto CORBIS

Ha occhi miti e mani forti padre Zef. Mani che conoscono la durezza del lavoro nei campi, hanno l’abilità di un artigiano tuttofare, ma prediligono il gesto di misericordia impartito nel confessionale. Zef Bisha ha 41 anni, è gesuita, il primo di origine albanese.

Da settembre è parroco della chiesa del Sacro Cuore di Tirana, nel centro della città, nei pressi della piazza centrale dedicata all’eroe nazionale Skanderbeg. Il racconto della sua vocazione è un pezzo di storia di questo Paese che il Papa ha visitato il 21 settembre. Zef è nato in un villaggio sulle montagne intorno Tirana, a Vau-Dejes. «Vengo da una famiglia povera che non è mai riuscita a fare quello che desiderava perché è stata privata della piena libertà dal regime. Eravamo sei figli».

Tre anni dopo la sua nascita, nel ’76, l’ateismo viene sancito dall’articolo 37 della Costituzione: «Lo Stato non riconosce alcuna religione e sostiene la propaganda atea per inculcare alle persone la visione scientifico-materialista del mondo». «Le chiese in Albania non esistevano più, alcune distrutte e altre trasformate in ambienti a uso profano. Non conoscevo né preti né suore. Sapevo solo, da quanto mi avevano detto i miei genitori, che le persone di Chiesa erano uomini e donne di Dio e persone sante. Ogni segno o gesto che richiamava la religione venne cancellato».

Il bambino sa che quella discarica abbandonata nel centro del paese è la parrocchia di San Nicola. «Quando si passava vicino a una chiesa distrutta o un luogo che prima era stato una chiesa si faceva di nascosto il segno della croce che richiamava la sacralità del luogo». La sera gli adulti, con la complicità della notte, si raccoglievano a recitare il rosario davanti al muro, dove in una nicchia dietro la porta era nascosto il crocifisso. «Durante il tempo della dittatura a scuola ci avevano insegnato a sognare a occhi aperti, eravamo convinti che il nostro Paese era il migliore nel mondo e che tutti gli altri Stati stessero morendo di fame. Quando morì il dittatore, mi ricordo bene la paura che provavamo che qualcuno dei Paesi capitalisti… venisse a rubare le nostre meraviglie. E invece… una volta aperti gli occhi, tutto era falso…!».

Caduto il regime, il paese di Vau-Dejes ha fatto a gara per partecipare alla ricostruzione di San Nicola. «Per me lavorare lì è stato anche ricostruire l’idea di Dio». Pronta la chiesa, ritorna il vecchio parroco, Nikoll Mazrreku. «In prigione gli avevano spezzato i polsi e rotto le braccia, non riusciva nemmeno a tener su il calice per la consacrazione. Celebrava la Messa in latino nei giorni festivi». La chiesa si rivela troppo piccola per la folla dei fedeli e così la gente porta le statue sacre – che durante la dittatura erano state conservate nei sacchi sotto terra e nelle intercapedini tra tetto e tegole – nella più capiente Casa del popolo, dove viene celebrata la Messa.

Zef aiuta i genitori nei campi, termina in fretta i suoi lavori per poi andare in chiesa. Le suore Dorotee della Frassinetti gli regalano una Bibbia in albanese. Dopo un anno riceve il Battesimo sotto condizione (viene impartito quando non c’è sicurezza di una precedente celebrazione, ndr) «perché non c’erano più registri né nulla di scritto». Molti gruppi di italiani arrivano nel paese e organizzano campi scuola e attività caritative. «Per noi era tutto nuovo. Durante il regime ci era proibito incontrare e parlare con gli stranieri». Quando una religiosa gli dice che vede in lui i segni della vocazione, Zef prova vergogna: «Mi sentivo vecchio, peccatore, indegno». D’altra parte i genitori, pur cattolicissimi, provano a dissuaderlo.

Eppure nel 1994 va nel seminario interdiocesano a Scutari, presentato da un sacerdote che celebrava nel suo villaggio. «L’anno seguente dovevo prestare servizio nelle parrocchie e mi toccò di lavorare con il gruppo del “Progetto Speranza”. È stata lì la prima volta che ho conosciuto e mi sono innamorato della missione dei Gesuiti». Chiede di entrare nella Compagnia di Gesù, ma riceve un rifiuto, «perché volevano verificare bene i desideri che avevo nel cuore». Dopo gli studi di filosofia in Albania, nel 1997 gli viene proposto di fare discernimento vocazionale a Bologna nella comunità “Sulla via di Damasco”. «Fu un anno di grazia!». È un cammino che significa scoperta e accettazione di sé, cambiamento nella visione di Dio, da giudice onnipotente a padre misericordioso, e della Chiesa, non soltanto santa ma comunità imperfetta di uomini e donne in cammino.

Entra nella Compagnia nel ’98, gli studi e la formazione lo portano in questi anni a Padova, poi a Napoli, a Madrid, in Messico. «La mia fede, come quella di tutti i cattolici albanesi, si era nutrita dei libricini che prima del regime erano stati scritti da alcuni sacerdoti. Semplici, ma non adatti a dire la teologia e l’immagine di Chiesa che nel frattempo è maturata con il concilio Vaticano II». Ritorna in Albania nel 2010, a Tirana, dove adesso è parroco. Dopo l’emergenza povertà dei primi anni, la parrocchia ha investito maggiormente «nella formazione umana e cristiana, con una scuola socio-politica e un lavoro che punta a responsabilizzare le persone, a rendere i laici partecipi della gestione della parrocchia e delle opere». Il giovane gesuita ha tradotto gli esercizi spirituali di sant’Ignazio in albanese e la pratica è abbastanza diffusa nel paese. «Facciamo tanto, ma la cosa che preferisco è confessare. Tante persone chiedono il nostro accompagnamento».

Padre Zef, riguardando la sua storia, sente che deve la sua crescita umana e la vocazione a tante persone ed esperienze, «ma in particolare ai miei genitori che mi hanno educato con pazienza e ai Gesuiti sopravvissuti al regime che ora si trovano nella casa del Padre. Tuttora risuonano dentro di me le parole che padre Vata mi disse prima di partire per il noviziato: “Sono contento di morire per due cose: la prima è che la Compagnia di Gesù non muore con me e la seconda è che tu mi sostituirai nella missione in Albania, manterrai viva e forte la fede in Gesù Cristo!”. Mi diede la sua benedizione con le sue mani grandi, abbracciandomi con tanto affetto».

Testo di Vittoria Prisciandaro

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