N. 4 - 2016 24 gennaio 2016
INSIEME di don Antonio Rizzolo

Cristo Maestro ci indica la via della pace, dell’amore, dell’incontro

Non lasciamoci abbattere dalle difficoltà della vita, dalle troppe parole di odio e di violenza. Seguiamo il Signore sulla…

Gennaro Nunziante

Con Zalone solo film a lieto fine: lo scopo della vita è la gioia

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Gennaro Nunziante

Con Zalone solo film a lieto fine: lo scopo della vita è la gioia

Il regista svela il dietro le quinte di Quo vado?: «Scelgo finali all’insegna dell’“insieme possiamo migliorare”, ce lo chiede anche il Papa quando parla della Chiesa come ospedale da campo»

Gennaro Nunziante con Checco Zalone

Gennaro Nunziante con Checco Zalone 

L’aspetto più sorprendente del film Quo vado? non sono gli oltre 52 milioni di euro, che promuovono la pellicola a miglior incasso italiano di tutti i tempi. O almeno, non è solo questo. Il vero elemento disarmante è il basso profilo mantenuto dall’autore, Gennaro Nunziante: un uomo che gira al largo da red carpet e ospitate televisive e che, nonostante sia la star del momento, si sente come un corpo estraneo all’interno dello show business. Per quel che può cerca di starsene in disparte, osservando stranito il clamore suscitato dai suoi film, e di lui probabilmente non sapremmo niente se Checco Zalone non si premurasse di sottolineare l’apporto decisivo del suo socio e amico di scrittura Nunziante. Che a Credere racconta di sé e della sua fede.

Perché è così refrattario all’esposizione mediatica?

«Una volta che il film finisce, è la storia che deve parlare. Non ha alcun senso aggiungere altro. Inoltre sono convinto che il successo sia come il veleno per i topi, perché ti dà ma ti toglie anche molto. Ecco, io non ho nessuna intenzione di rinunciare alle cose che mi sono guadagnato nella vita, in primis alla mia serenità d’animo che nasce dall’impegno di provare a essere un buon marito, un buon padre, un buon amico».

Per questo ha scelto di vivere a Bari, lontano dai salotti buoni?

«Sinceramente non trovo nessuna differenza tra salotti buoni e gente del popolo: sono cresciuto in mezzo ad amici ricchi e poveri, e a figli di disoccupati come me. Semmai, a dettare la scelta è stato il ritmo di vita: Bari mi aiuta a vivere secondo uno stile che amo, ossia il ritmo del mare, della meditazione, della lentezza, del pensiero. Inoltre a Roma e Milano i costi della vita sarebbero proibitivi e mi ritroverei a dover produrre più di un film ogni due anni: il mio lavoro, che è puramente artigianale, diventerebbe industriale. Invece se si desidera una vita artistica autentica, vera e sincera non bisogna farsi abbindolare da nulla: né dai soldi né dalle proposte. Le scelte devono sempre essere dettate da una condivisione dell’ideale. Se non impariamo a farci bastare le cose, queste finiranno per decidere il nostro destino».

Eppure, quando ha iniziato questo lavoro, sapeva che la notorietà e l’esposizione mediatica erano due realtà, parecchio ingombranti, legate al mestiere…

«Ho avuto dei grandi maestri che, pur essendo delle ottime penne, erano delle persone molto umili. Quindi ho pensato: se uomini come loro hanno potuto vivere nella totale umiltà, può riuscirci anche una persona molto meno brava come me. Inoltre mi ha salvato il fatto che il grande successo sia arrivato a 50 anni, ossia a un’età più matura, per cui non c’è nulla che distoglie la mia attenzione dai valori a cui ho dato la vita».

Perché si è dato il limite proprio di un film ogni due anni?

«Luca (vero nome di Checco Zalone, ndr) e io abbiamo stretto un vero e proprio patto di ferro che consiste nel mantenere le nostre produzioni a livello artigianale, preparando ogni film con molta attenzione. Inoltre, uscendo ogni due anni, possiamo stare con la nostra famiglia: la cosa più importante è la nostra vita. Ai miei figli amo ribadire che il mio è un lavoro normale e artigianale e che, anche in questo baccano mediatico, la nostra routine va avanti, tra pranzi e partite a calcetto. Tra l’altro sono proprio queste cose che, personalmente, mi aiutano a scrivere i film. Non esiste infatti una barriera tra professione e vita privata: quello che tu sei nella vita, lo sei anche nel lavoro. I tuoi valori personali sono anche gli ideali che poi trasmetti nei film».

Tutte le vostre pellicole sono a lieto fine. A che condizione “vissero tutti felici e contenti” non risulta consolatorio, ma costruttivo?

«Il finale è lieto perché lo scopo della nostra vita è la gioia. Io stesso, a distanza di anni, mi sono ritrovato a rivalutare alcuni episodi terribili della mia esistenza: erano dei campanelli di allarme necessari perché io poi potessi gioire. Questo, peraltro, dimostra come l’uomo abbia un senso molto grossolano, per non dire errato, di ciò che è male e di ciò che è bene. Eppure proprio questa nullità dell’uomo, questo suo essere niente, è rivelazione di Dio e il cinema dovrebbe avere l’umiltà di inchinarsi davanti alla pochezza umana. Quanto al finale di una storia, lo vivo come un crocevia dove devo scegliere tra un’aggressione finale a un uomo oppure un abbraccio, all’insegna del “possiamo migliorare e cambiare insieme”. Scelgo sempre questa seconda strada perché è così che sono stato accolto quando sbagliavo: pur facendomi notare l’errore, qualcuno mi ha sempre teso una mano. E in fondo è questo il grande richiamo del Papa quando parla della Chiesa come un ospedale da campo. So di non avere l’appeal del cineasta impegnato, ma non mi interessa perché non mi rappresenterebbe. Io sono figlio di una comunità fatta di amici, solidarietà e accoglienza: così sono cresciuto e così considero la vita, e pazienza se qualcuno mi taccerà di buonismo».

Come ha incontrato la fede?

«Da giovane ho frequentato un oratorio salesiano: qui ho conosciuto un prete che mi ha fatto leggere alcuni libri di cinema e portato a vedere dei film. Però la fede non è arrivata in quegli anni: all’epoca la mia era più che altro partecipazione a dei rituali. La conversione vera è arrivata in età adulta, attraverso un percorso di grande dolore: mi sono reso conto che volevo avere tutto ma che, al contempo, tutto era niente. Iniziai a percepire in me un’inquietudine a cui non sapevo dare risposta. Poi, di colpo, ho cominciato a intuire cosa mi ero perso per strada. Il mio è stato un percorso semplice basato, più che sulla meditazione di testi teologici, sull’osservazione della vita alla luce della fede. Ho iniziato a fare un lavoro dentro di me, stando attento a un concetto: spesso noi cattolici commettiamo l’errore di vantare una maggiore conoscenza presunta della vita. Una superiorità che sinceramente non so nemmeno dove sia di casa: io mi sento un ipocrita che si alza la mattina e chiede pietà di sé al Signore per la pochezza d’uomo che sono».

È questa prospettiva che le permette di non scadere nel cinismo o nell’invettiva sociale, tipici invece di molti film comici?

«Preferisco accanirmi su di me e raccontare le mie falsità, anche perché conosco molto meglio le mie ipocrisie, che non quelle degli altri. Per anni un certo cinema pseudo autoriale ci ha raccontato storie di amarezza e aridità. Io provengo da una famiglia povera e ho conosciuto il mondo dell’amarezza ma le assicuro che il finale è lieto perché il dolore ti segnala che devi cambiare qualcosa nella tua vita».

Quindi, ora che Quo vado? è uscito, sparirà per un paio d’anni?

«In realtà io non sono mai ricomparso (ride, ndr)! Il mio prossimo progetto è andare in letargo, che poi è la parte più lavorativa della mia vita perché significa tornare a leggere, ad ascoltare, a viaggiare. Mi serve per riempire le cisterne della vita, che altrimenti inaridisce».

 

Visto da vicino

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Pugliese doc, 52 anni, Gennaro Nunziante è sposato con Margherita ed è padre di tre figli. Fin da giovane si distingue a Bari per la sua geniale creatività firmando come autore alcune fiction satiriche per TeleBari e TeleNorba, tra cui Teledurazzo. Il grande successo arriva però con il sodalizio con Checco Zalone, conosciuto appena dieci anni fa. Con Zalone scrive i film Cado dalle nubi (2009), Che bella giornata (2011), Sole a catinelle (2013) e Quo vado? (2016). Sua è anche la regia di tutte e quattro le pellicole. Alle spalle vanta anche un paio di esperienze come attore, nei film Il grande botto e Caso mai. Credente, si sente molto vicino a papa Francesco, di cui apprezza l’invito alla gioia e alla misericordia.

Testo di Francesca D’Angelo

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