N. 40 2014 5 ottobre 2014
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Chiara Dal Corso

Mi sento ricca eppure non possiedo nulla»

La giovane arriva al Sermig di Torino a 17 anni. L’accoglienza e lo smistamento  dei vestiti per i poveri la fanno sentire utile e libera. Così comincia la sua “rivoluzione” e decide di entrare nella Fraternità

 

Chiara Dal Corso

Foto di Alessandro Alberti

«Sono venuta qui la prima volta nel giugno del ’98 con il mio parroco di Verona e alcuni compagni di scuola. Avevo 17 anni e non sapevo neanche cosa fosse un campo di lavoro. La prima domanda che ho fatto quando mi hanno invitato a partecipare è stata: ma visto che lavoriamo, ci pagano? Poi appena arrivata ho capito, anzi ho sentito, che qui c’era un’aria diversa. Era un momento della mia vita in cui ero in ricerca e tutto intorno a me mi sembrava vuoto, i divertimenti, lo studio, gli amici. Qui, invece, tutto serviva a qualcosa. C’era da fare l’accoglienza, lo smistamento dei vestiti per i poveri, i servizi in cucina, le visite dei gruppi. Io ero utile. E anche la preghiera era diversa, qui si pregava davvero. Ero stravolta ed emozionata e mi ricordo che la notte, in quella prima settimana, non riuscii a dormire».

Sono passati 16 anni da quella prima visita e Chiara Dal Corso – che entrava in quel monastero metropolitano che è il Sermig di Torino, per la prima volta – decise a poco a poco di venire a vivere qui. Nel giro di due anni ha detto sì al Signore ed è entrata nella Fraternità della speranza che pochi giorni fa, dopo 50 anni di attività, è stata riconosciuta anche dalla Chiesa. Oggi Chiara ha 33 anni e vive stabilmente all’Arsenale della pace dal 2000. Lo spazio – recuperato e inaugurato da Ernesto Olivero, fondatore del Sermig nel 1983 con “un pugno di giovani”, da una ex fabbrica di armi, ristrutturata grazie all’aiuto di tantissimi volontari – è a pochi passi dalla Dora, in una zona difficile del capoluogo piemontese, tra Santa Maria Ausiliatrice, dove don Bosco iniziò la sua attività pastorale, e il Cottolengo. Dopo aver fatto tanti dei diversi servizi di accoglienza ed essersi diplomata all’Accademia delle belle arti, Chiara è stata due anni in Giordania in un altro Arsenale del Sermig per occuparsi di attività artistiche con i bambini disabili cristiani e musulmani.

Oggi tiene un corso di iconografia e dipinge icone sacre. Gli occhi azzurri dietro gli occhiali non nascondono la sua continua emozione, il suo cuore è disarmato. «Mi ero innamorata anche delle persone che erano qui. E così sono tornata l’estate successiva e per tutto l’anno seguente, che era il mio ultimo anno di liceo: firmavo le giustificazioni per venire almeno una volta a settimana. Intanto mi cresceva dentro il desiderio di restare. Il Signore fa così, ci prende con dei ganci e poi tira, tira fino a che ci parla. Ma io ero giovane, impacciata e timidissima, non mi fidavo di me stessa e volevo essere sicura che era lui che mi stesse chiamando, e allora ho chiesto un segno. Un segno che poteva sembrare assurdo. E in un momento in cui non me lo aspettavo, il segno è arrivato. E io ho detto “sì”. È iniziato così il mio cammino».

A quel punto Chiara, che aveva 18 anni, taglia con il passato. Tutto in quel momento le era di intralcio, sentiva dei lacci che volevano legarla e non aveva nostalgia di nulla perché, come lei stessa dice, «davanti a me, avevo un tesoro». A nulla sono valse le lacrime della mamma o le preoccupazioni del padre, che era convinto che sarebbe tornata indietro. «Sapevo di dargli un dolore», racconta Chiara, «ma io sentivo con chiarezza che era la mia strada, che in gioco c’era la mia vita, non un capriccio. Sentivo che Dio mi stava chiamando e che mi chiedeva qualcosa di più di una famiglia e un lavoro normale. Mi chiedeva di essere disponibile a lui e ai più poveri. E volevo che il mio “sì” a lui fosse totale. Il Sermig mi sembrava un posto dove si diceva la verità, era la prima volta che sentivo dire che i giovani sono i più poveri, che c’era bisogno di una svolta e che il futuro era nostro. Per me erano tutte cose vere, che sentivo sulla mia pelle, così come oggi. A quel tempo organizzammo il primo raduno mondiale dei giovani, eravamo 100 mila a Torino e riempimmo piazza Castello e piazza San Carlo».

Quando Chiara entra nella Fraternità, nel 2000, i consacrati erano poco più di una dozzina. Oggi al Sermig sono oltre quaranta tra uomini e donne, di cui molti giovani, oltre ad alcune coppie e famiglie, che hanno deciso di vivere in Dio all’Arsenale della pace. Tutti fanno tutto, come in ogni fraternità. L’Arsenale è un posto aperto 24 ore su 24, con 200 posti per l’accoglienza notturna maschile e femminile, ambulatori per visite mediche gratuite, casa ospitale per migliaia di giovani e luogo di cultura e di preghiera. «Il Sermig vuole vivere come le prime comunità cristiane», dice Chiara. «È una parrocchia e qui non facciamo nulla di speciale se non quello che ha detto Gesù: alloggiamo i pellegrini, diamo da mangiare agli affamati, vestiamo i poveri, visitiamo i carcerati e diamo sostegno ai malati. La vita qui è una ginnastica di obbedienza continua. Io ho dei compiti fissi e poi ogni giorno ci sono gli imprevisti da affrontare. C’è la rinuncia al possesso delle cose, che da me vengono solo usate. E poi c’è la castità. All’inizio ho fatto fatica, ma è arrivato anche questo dono, non cercare il possesso delle altre persone. Sono cose che non possono essere lasciate al caso, ogni pretesto è utile per tornare a Dio e il dialogo con il Signore mi dà pienezza e mi fa dare un senso a queste rinunce. E poi c’è la fraternità, che è una potenza. Tantissimi ci chiedono preghiere e noi preghiamo per loro. Perché il Signore ascolta sempre le nostre richieste, vuole solo vederci un po’ convinti. In questo periodo preghiamo molto per i giovani».

Perché proprio i giovani sono al centro della missione del Sermig e la manifestazione di Napoli del 4 ottobre (vedi pagina accanto) vuole chiamare tutti i ragazzi a sentirsi di nuovo protagonisti. La giornata organizzata dalla fraternità è affidata a Maria madre dei giovani, che protegge gli Arsenali, e della quale Chiara sta replicando l’icona di santa Maria con tre mani, da portare in piazza del Plebiscito. «Mentre dipingo, prego che l’icona parli di Dio e che chi la guarda provi nostalgia per lui e lo desideri. Andare a Napoli è un pretesto per risvegliare le coscienze. La Fraternità vuole portare speranza perché fare del bene è possibile. Noi speriamo che ci siano delle conversioni in quei giorni. Per qualcuno può voler dire tornare a studiare, per un altro impegnarsi nell’aiutare gli altri... Quest’estate un ragazzo mi ha detto: quando torno smetto di fumare spinelli. Ecco: lui ha iniziato una rivoluzione». Il messaggio che parte da Torino e da Napoli è che tutti possono farlo. Basta volerlo. Con fede e responsabilità.

Testo di Geraldine Schwarz

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