Credere n. 44 - 02/11/2014
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Vorrei interpretare la vita di san Giuseppe
Il popolare attore, presto in teatro con una nuova commedia, rivela quali sono i personaggi del Vangelo in cui si identifica…
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Massimo Dapporto
Vorrei interpretare la vita di san Giuseppe
Il popolare attore, presto in teatro con una nuova commedia, rivela quali sono i personaggi del Vangelo in cui si identifica e le preghiere che ama recitare spesso
Massimo Dapporto. Foto di Davide Lanzilao / CONTRASTO
«Quando, nel 1997, andò in onda Un prete tra noi, dove interpretavo il personaggio di don Marco, mi accadde una cosa curiosa. Dopo qualche mese ho ricevuto una lettera di tre ragazze di Padova che mi raccontavano che, nel vedere quella fiction, avevano sciolto i dubbi sulla loro vocazione ed erano entrate in convento. E così ce le ho sulla coscienza!». La simpatia dal vivo di Massimo Dapporto è la medesima che mostra in tante sue interpretazioni sia televisive che teatrali. Proprio sul palcoscenico, lo vedremo tornare a gennaio con Ladro di razza, una commedia brillante di Gianni Clemente.
Che ricordi conserva di quella esperienza?
«Mi sono trovato benissimo a interpretare don Marco, anche perché ho potuto rifarmi ai ricordi della mia formazione in una scuola religiosa, prima alle elementari dalle suore, poi con le medie e il liceo classico nel San Giuseppe De Merode di piazza di Spagna, a Roma. Qualche spettatore mi ha chiesto se fossi stato in seminario. In realtà avevo osservato a lungo quei religiosi e avevo assimilato il modo in cui si comportavano, si muovevano: quello più nervoso, quello più tranquillo...».
Quella interpretazione ha avuto anche dei riflessi sulla sua vita?
«È stato un periodo che mi ha arricchito molto. Don Marco era un teologo, ma anche un cappellano del carcere romano di Rebibbia. Quando ho girato per un mese in questo penitenziario, mi sono sentito molto “nella parte”, quasi quasi mi sentivo davvero “il parroco di Rebibbia”. Qualche volta ho cercato anche di prendermi a cuore la situazione di qualche detenuto, anche se la mia capacità persuasiva non era delle migliori. Una volta, a uno dei reclusi che stava per uscire, dissi di comportarsi bene e lui di rimando: “A’ Marco, io domani ricomincio a rubbà”. E devo dire che a nulla valsero i miei tentativi di dissuaderlo: “Dai, vattene, nun me sta a parlà alla coscienza, sennò te do ’na pigna”. Lì dentro incontrai anche uno dei più bravi scassinatori d’Europa, che mi raccontò alcuni segreti del mestiere. Mi venne spontaneo rispondergli: “Ma tu, con la testa che ti ritrovi, avresti dovuto costruirle le casseforti, diventare un imprenditore del settore!”».
Teatro, cinema, televisione... Quanto c’è della persona e della sua vita e quanto del personaggio, della recitazione?
«Indubbiamente, c’è una grande differenza tra la commedia teatrale, il dramma o la tragedia. Per esempio, nell’Otello costruisco un personaggio e recito, mentre in Ladro di razza, che è una commedia divertente, sono più me stesso e utilizzo il mio modo di dire la battuta e di parlare. Talvolta non riesco nemmeno a rendermi conto quanto ci sia di me, è una cosa inconscia. Nelle fiction, il medico, il prete, il commissario non sono persone reali, al contrario di quando ho fatto Falcone, che mi ha spinto a comportarmi come si sarebbe comportato lui».
E invece, cosa si prova a recitare ruoli classici come il malato immaginario o l’avaro di Molière?
«I classici sono per definizione sempre attuali, raccontano i problemi degli uomini che nello scorrere dei secoli sono rimasti gli stessi. Finché non distruggeranno il nostro dna, i nostri difetti saranno sempre quelli. Perciò io vedo il teatro come una scuola della vita, dove attore e autore sono complici: all’attore spetta in particolare fare da mediatore, dando la giusta sottolineatura affinché il pubblico possa riflettere. A volte, è la risata che ti fa anche pensare, vedere i tuoi difetti, e in qualche modo ti spinge a riconoscerti e a cambiare il tuo atteggiamento...».
Questo stimolo “educativo” funziona anche con i ragazzi?
«Oggi un po’ meno. Qualche tempo fa, mi trovavo a recitare in un complesso scolastico e vedevo tanti ragazzi distratti dai telefonini accesi. Quasi volevo fermare lo spettacolo: erano più illuminati loro da quei piccoli schermi che noi sulla scena. In una serie televisiva ho interpretato anche un professore e lì mi sono reso conto di quanto entrare nel mondo della scuola voglia dire entrare dentro i problemi dei giovani, che non sono di facile soluzione».
Quale personaggio, invece, le piacerebbe interpretare?
«Può sembrare curioso, ma vorrei interpretare Giuda. Credo che per un attore sia una sfida interessante. Quando entri in un personaggio devi scavare, capire. Certo, Giuda ha fatto una cosa sbagliata e terribile, ma mi piacerebbe poter capire che cosa ha vissuto e che cosa gli è successo prima di quel momento finale del tradimento contro Gesù. Un altro personaggio evangelico che attira la mia curiosità è san Pietro quando rinnega Gesù. È una cosa che mi fa star male, è come entrare dentro la bugia, anche se poi la sua vicenda umana si evolve con il pentimento. E anche Giuseppe mi fa tenerezza: non penso che abbia creduto subito che Gesù fosse figlio dello Spirito Santo. Certo, era stato toccato dalla grazia, ma deve aver attraversato dei dubbi che lo hanno lacerato dentro, penosi per un uomo, lei incinta e lui che non l’ha mai toccata».
Cosa invece la colpisce del Vangelo?
«Alcuni insegnamenti, come in particolare quello del perdono. È una cosa forte da mettere in pratica. Io cerco di impormelo, ma di solito nei miei rapporti con gli altri non perdono per i torti che subisco. Però do la possibilità al mio prossimo di recuperare, gli do tempo, mi dico: “Vediamo come si comporta”. Forse la pratica del perdono nell’ambiente artistico dovrebbe essere più frequente».
Qual è dunque il suo rapporto con la fede?
«Beh, io credo, anche se non sono un gran praticante. Mi piace comunque entrare in chiesa per pregare, e le mie chiese preferite sono due: la chiesa degli artisti a piazza del Popolo, a Roma, e una chiesetta a Porto Venere in Liguria, lungo la passeggiata che porta alla grotta Byron. Delle preghiere non amo particolarmente l’eterno riposo, non voglio dare il “buon riposo” all’anima, le anime nell’aldilà le vedo come qualcosa in movimento. Prego invece l’angelo di Dio: sento che c’è, anche se è un mistero».
Testo di Alberto Di Giglio