N. 44 2014 2 novembre 2014
INSIEME di don Antonio Rizzolo

Un cuore ancorato là dove i santi ci attendono

Cari amici lettori, la Chiesa, all’inizio del mese di novembre, ci invita a ricordare tutti i santi e i nostri fratelli defunti...

Il “faro” di Paravati

Mamma Natuzza mistica della Calabria

Si apre il processo di beatificazione per la donna che ebbe stigmate e apparizioni ma di sé diceva: «Non cercate me, alzate…

Margherita Coletta

«Mai nulla riuscirà a separarmi da Dio»

Un figlio morto ad appena sei anni e poi il marito ucciso nella strage di Nasiriyah, in Iraq. Ma Margherita Coletta non ha…

Suor Caterina De Nicola

La via della tenerezza verso la morte

Il 2 novembre, data in cui la Chiesa ricorda i fedeli defunti, ci impegna a ripensare alla realtà della morte e all’aiuto…

Massimo Dapporto

Vorrei interpretare la vita di san Giuseppe

Il popolare attore, presto in teatro con una nuova commedia, rivela quali sono i personaggi del Vangelo in cui si identifica…

Ite, Missa est | Enzo Romeo

La fatica di camminare insieme

Che fatica camminare insieme! Lo sapevano bene gli apostoli, che seguivano Gesù sulle strade della Galilea...

Asia Bibi

Calvario infinito

Nonostante la mobilitazione internazionale la Corte di appello del Pakistan ha respinto il ricorso e ora la donna cristiana…

Per una lettura completa...

Suor Caterina De Nicola

La via della tenerezza verso la morte

Il 2 novembre, data in cui la Chiesa ricorda i fedeli defunti, ci impegna a ripensare alla realtà della morte e all’aiuto che ognuno può dare a chi si sta avvicinando al momento finale della sua vita

 

Suor Caterina De Nicola

Suor Caterina de Nicola con suor Carolina, una sua anziana consorella. Foto CORBIS

»Dal 1990, anno in cui ho terminato la mia formazione nella congregazione delle Suore di Maria Bambina, mi occupo di persone in fase avanzata di malattia, quelle che normalmente chiamiamo “malati terminali”. La riflessione sul limite, sulla fragilità, sulla malattia grave e sul morire mi accompagna da allora con una profondità infinita. Sono animata dal desiderio di condividere quel difficile cammino con chi soffre, per crescere in umanità con lui e con i suoi cari».

Incontriamo suor Caterina de Nicola, 60 anni, medico con una specializzazione in gastroenterologia e un diploma in teologia pastorale sanitaria, nella casa della sua congregazione a Bergamo, dove la religiosa vive insieme a molte sue consorelle anziane. Sono parole impegnative, quelle che dice, parole che maturano ogni giorno nell’amorevole cura verso di loro, che hanno dato la vita per la missione, e per i malati terminali che incontra, di solito al venerdì e nei fine settimana, nell’hospice del Polo Geriatrico Riabilitativo di via San Faustino a Milano, con cui collabora da qualche mese. L’hospice è una struttura sanitaria in cui si viene ricoverati nella fase terminale dell’esistenza e in cui l’assistenza medica è molto specializzata per seguire con umanità, grazie anche alle cure palliative, gli ultimi giorni di vita dei pazienti.

Suor Caterina è una persona profonda, misura molto le parole quando tratta del tema della morte e del morire. Le abbiamo chiesto un appuntamento proprio per parlare di questo delicato tema in vista del 2 novembre, data in cui la Chiesa ricorda i fedeli defunti.

«Accompagnare i malati terminali dal punto di vista medico mi permette di accompagnarli anche spiritualmente», spiega dopo averci pensato un po’ su. Forse deve questa sua attenzione ai sofferenti al male che, appena laureata, l’ha colpita, rendendole la vita difficile: una retinite pigmentosa, che la limita nella sua piena autonomia. E chi sta per morire quell’autonomia l’ha persa completamente... «Nella mia formazione spirituale devo molto al cardinal Martini», aggiunge. «Una ventina di anni fa esisteva la consuetudine, in prossimità della morte, di chiamare il cappellano per dare l’Unzione degli infermi anche quando – e la cosa mi sorprendeva molto – la persona non era più cosciente. In occasione di un corso di esercizi spirituali tenuti da lui per le suore giovani della diocesi di Milano, gli chiesi se questa pratica era corretta da un punto di vista sacramentale. Lui mi rispose: “Non preoccuparti, è grazia che passa”. Con quella frase il cardinale mi ha dato un insegnamento fondamentale: è la relazione che conta. Di questo ho fatto tesoro: come medico e come cristiana mi sono fatta la convinzione che nelle fasi finali della vita sia molto importante proprio la relazione con il malato». E prosegue: «Occorre parlare con lui anche se non risponde; non si può mai escludere che senta anche in assenza di segnali di risposta. È un modo per farlo sentire meno solo. Il calore umano è una compagnia molto importante, dà un senso alla fatica del morire». La religiosa ascrive questa speciale vocazione di assistere i malati terminali al giorno in cui è nata: il Venerdì Santo del 1954, il giorno in cui la liturgia ricorda la morte di Gesù. «Questa circostanza mi ha da sempre fatto provare il desiderio di comprendere il mistero della malattia e della morte».

E anche lei, come Maria sotto la croce di Gesù, assiste con amore i suoi fratelli. Provocata sul modo di morire oggi, commenta: «Ormai la gente – anche quella che si proclama cristiana e soprattutto quella che vive in città e con un più alto grado di cultura – fa fatica ad accettare la malattia, la sofferenza, il processo del morire, la morte... Quest’ultima viene nascosta, camuffata; al malato viene negata la consapevolezza di quanto sta per accadergli, nell’illusione e nella speranza che “non se ne accorga“. In realtà lui spesso se ne rende conto e può manifestare sensi di angoscia che richiedono anche un accompagnamento umano, psicologico e medico. Per questo nel mondo delle cure palliative preferiamo usare il termine “spiritualità”, non riferito necessariamente a un particolare “credo” ma semplicemente all’attenzione al vissuto del malato con un’amorevole e compassionevole vicinanza umana».

Cosa manca, dunque, oggi? «Occorre educare alla morte, al morire. In camera mortuaria si vede molta velocità nell’affrontare il post-mortem, si deve gestire tutto in fretta da parte dell’agenzia mortuaria. Così facendo, però, si evita l’elaborazione del lutto, che spesso viene rimosso e rimandato alla prossima morte con cui, presto o tardi, ci si dovrà confrontare».

Il segno del cambiamento dei tempi viene anche da una forma di spiritualità popolare che è venuta meno. «Un tempo si diceva: “Liberaci dalla morte improvvisa”, proprio perché si auspicava di prepararsi, anche con i sacramenti, alla morte, cioè all’incontro col Signore», chiarisce la religiosa. «Oggi, invece, si desidera una morte rapida. Non si accetta l’agonia, la lunga malattia. La società ci obbliga ad avere una vita sana, attiva e allora si fa fatica a sopportare la sofferenza, soprattutto quando si perde l’autonomia e la capacità di essere attivi. Persino i religiosi ne sono condizionati, questo mi interroga molto…».

Le chiediamo se ha mai pensato alla sua morte. «Sono contraria, anche per me, a qualsiasi forma di accanimento terapeutico in caso di malattia, ma nemmeno penso alla pratica dell’eutanasia o dell’abbandono terapeutico. Mi piacerebbe essere trattata con “adeguatezza etica”, cioè con equilibrio; spero di non morire all’improvviso, ma di prepararmi a lasciare il mondo, accompagnata all’incontro col Signore. Poi ci attende quello che la Chiesa insegna a chiamare “paradiso”, che sento essere un luogo di comunione e amore col Signore, una realtà misteriosa e trascendente, un “oltre” molto simile, anche se diverso allo stesso tempo, al nostro stare insieme, qui sulla terra. Una comunione spirituale. La comunione dei santi».

Testo di  Stefano Stimamiglio

 

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