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Don Virginio Colmegna
Mi sento a casa dove c’è carità
Il sacerdote milanese che guida la “Casa della carità”, il centro voluto dal cardinal Martini per accogliere gli ultimi e che quest’anno festeggia dieci anni di attività, ci racconta la sua fede vissuta tra gli emarginati
Don Virginio Colmegna, 69 anni, ha da poco festeggiato i 45 anni di Messa. Foto di Ugo Zamborlini
C’è una frase che don Virginio Colmegna pronuncia spesso: «Stare nel mezzo». Tre parole, semplici ed efficaci, che ha ripetuto più volte nel corso degli ultimi anni. Ma che non si sono mai trasformate in un banale slogan. Quasi un’esortazione, a se stesso e tutta Milano: mettersi in gioco ogni volta che una qualche “emergenza” si abbatte sulla città. Dallo sgombero di un campo rom all’esigenza di trovare un tetto per un gruppo di profughi siriani, dal dramma della malattia mentale alla solitudine amara degli anziani. «Stare nel mezzo significa non sentire la storia dell’altro come estranea», spiega il sacerdote. «Vuol dire affrontare situazioni scomode, rischiare continuamente, anche se non si hanno tutte le risposte. Vuol dire avere il coraggio dell’ospitalità». È l’esatto contrario del populismo, che grida ad alta voce e fomenta l’odio: la strada più facile, quella che porta voti. «Ma alla fine il problema rimane. E soprattutto rimangono i volti».
Volti che don Virginio Colmegna conosce bene. Perché li ha visti fin dall’inizio della sua attività pastorale come giovane sacerdote nel quartiere operaio della Bovisa. Tra i ragazzi con disabilità fisica e mentale di Sesto San Giovanni. Sono anni difficili, in cui don Colmegna vive la fatica di conciliare il suo impegno di “prete operaio” all’interno della Chiesa che stava vivendo forti spinte al cambiamento. «Ho sempre avuto qualche problema nei rapporti con le istituzioni», spiega con un mezzo sorriso.
Poi l’illuminazione: a Milano era arrivato da appena un anno un nuovo arcivescovo, un gesuita torinese, Carlo Maria Martini. Don Colmegna decide di scrivergli. «Pochi giorni dopo mi ha fatto chiamare dalla sua segreteria invitandomi ad andare a vivere tre giorni con lui in arcivescovado», ricorda. Con questo incontro e con il suo ascolto, Martini scioglie i dubbi del giovane sacerdote e gli indica la strada da percorrere: «Mi disse di andare a vivere a Sesto San Giovanni e di portare avanti il progetto di ospitalità per i ragazzi disabili». La sfida era combattere la segregazione in istituto, avviando un progetto di accoglienza nel quartiere e di supporto alle famiglie. La lotta per assicurare a questi ragazzi il diritto allo studio e al lavoro. Un’attività che prosegue fino al 1993, quando il cardinal Martini lo nomina direttore della Caritas Ambrosiana, un incarico che ricopre per ben 11 anni.
Oggi, a 69 anni, don Virginio Colmegna ha da poco festeggiato i 45 anni di Messa. E tra pochi giorni, il 24 novembre, un nuovo anniversario: i primi dieci anni di attività della “Casa della carità”. Ancora una volta, c’è l’impulso del cardinal Martini, che volle lasciare un segno concreto nella sua Milano prima di lasciare la cattedra arcivescovile: «Fate crescere un’accademia della carità», fu la sua esortazione. «Voleva un luogo dove esprimere la sapienza della carità, dove si concretizzasse l’accoglienza degli ultimi. Un’ospitalità motivata dal valore della gratuità», sottolinea il sacerdote. Un luogo che fosse veramente “casa” e non solo un dormitorio, questo voleva Martini.
I numeri danno – in parte – la dimensione del lavoro svolto: dal novembre 2004 al giugno 2014 sono state ospitate in via Brambilla, nel quartiere di Crescenzago, 2.164 persone di 94 nazionalità. Senza contare gli oltre 1.400 profughi siriani, palestinesi ed eritrei accolti tra maggio e settembre 2014. Gli ospiti della Casa della carità sono uomini che hanno perso il lavoro, rifugiati politici e richiedenti asilo, rom in difficoltà, profughi, uomini e donne con una malattia psichica. Ciascuno con la propria storia di sofferenze e di difficoltà. «Abbiamo lavorato con loro, stando al loro fianco per costruire un percorso che li portasse verso l’autonomia», spiega il sacerdote.
Oggi però quel cammino si è fatto più difficile: trovare un lavoro è sempre più difficile, la casa – per molti – resta un miraggio inavvicinabile. La malattia mentale e la sofferenza psichica sono pericolosi nemici che rendono più fragili questi percorsi di autonomia.
La formula benedettina Ora et labora riassume bene le giornate di don Colmegna. Perché ci sono le convenzioni da rispettare, le persone da accogliere e tanti problemi da risolvere. Facendo sempre attenzione a non scivolare solo sul piano del fare: «Bisogna smetterla con questa idea che i preti di strada siano solo preti operosi: più si vive la carità, più emerge una fede che è dubbio e ricerca», sottolinea. Del resto lo aveva detto anche papa Francesco: la Chiesa non è un’agenzia umanitaria, né una Ong. Una riflessione che ha molto interrogato don Colmegna, che non si vede nel semplice ruolo di “gestore” della povertà: «Guai se non avessi il tempo per pregare: mi alzo la mattina presto per farlo. E più vado avanti con l’età, più sento l’esigenza dell’ora di adorazione, della recita quotidiana del rosario. I miei genitori, entrambi operai, mi hanno trasmesso quella che io definisco la fede feriale, la recita del rosario mentre si preparava il letto, andare a Messa le domeniche, la fede popolare. Questa è stata una grande risorsa, che mi ha dato una solidità di fede di cui sono grandissimo debitore ai miei genitori».
Una vita spesa accanto agli ultimi, agli indesiderabili. «Dieci anni fa erano gli stranieri», spiega. «Eravamo di fronte a un fenomeno nuovo, con tutte le sue contraddizioni». Erano e sono ancora “indesiderabili” i rom: «Abbiamo deciso di stare nel mezzo, accogliendoli, andandoli a trovare nelle aree dismesse in cui abitano, difendendoli quando venivano sgomberati, ragionando con loro sulla legalità». Un lavoro lento, faticoso, complesso. Ma che ha portato frutti: ci sono bambini che vanno a scuola, «un gruppo persino al Conservatorio», ci sono mamme che lavorano, famiglie che hanno trovato una casa vera. «Bisogna smontare l’idea che la solidarietà sia qualcosa di buonista, la solidarietà è piena di legalità».
Fanno paura, gli indesiderabili. Ma la paura si può superare: lo testimoniano un gruppo di anziani del quartiere Crescenzago che trascorrono le mattinate alla Casa della carità e che hanno saputo superare la paura del diverso: «Una nostra ospite ha voluto festeggiare qui il suo centesimo compleanno assieme ai figli, nipoti e pronipoti», ricorda don Colmegna. «In quell’occasione ha annunciato di voler dare una delle sue case a una famiglia rom. È un piccolo segno di speranza».
Testo di Ilaria Sesana