N. 6 2015 8 febbraio 2015
Sommario 6 - 2015

Credere n. 6 - 08/02/2015

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Il Testimone | Suor Marcella Catozza

L’angelo che lenisce le pene di Haiti

Francescana e infermiera, ha dato vita a una clinica, una scuola e una casa di accoglienza, portando un raggio di sole nelle baraccopoli della capitale.

In foto: Suor Marcella nel centro da lei promosso a Waf Jèrèmie

In foto: Suor Marcella nel centro da lei promosso a Waf Jèrèmie. Foto di Marco Gualazzini

A fine anni Novanta il conflitto del Kosovo imperversava e a occuparsi del campo profughi di Valona era una missionaria francescana di 35 anni, suor Marcella Catozza, di Busto Arsizio. Cresciuta nelle fila del movimento di Comunione e Liberazione della città lombarda e poi impegnata nello studio di Medicina, durante gli anni dell’università prese la decisione di prendere i voti, terminare gli studi specializzandosi in infermieristica e partire per una vita da missionaria.

Già era stata in Albania nel ’92, quando nella missione di Babice e Madhe si occupava dei bambini e degli adolescenti, prima dell’acuirsi del conflitto, quando ogni aspetto della vita in Albania si caratterizzò per orrore ed estremismo. «Me lo ricordo come fosse oggi il giorno in cui un boss della criminalità organizzata albanese entrò nella missione, si sedette nel mio ufficio e, appoggiando una pistola e una valigetta piena di dollari sul tavolo, mi disse di vendergli sei orfani kosovari e che gli organi di quei bambini sarebbero andati ad altri orfani, ma albanesi».

Rievoca quel momento suor Marcella, seduta nella veranda della missione di Waf Jérémie ad Haiti, e prima di arrivare a spiegare come mai adesso sia l’artefice di una delle opere considerate un miracolo concreto nella capitale haitiana, prosegue nel raccontare la sua storia: «Dopo che sentii le parole di quel boss, scagliai la valigetta in mezzo all’ufficio e gli dissi di andarsene. Lui si congedò promettendo che sarebbe tornato il giorno dopo per una risposta». La stessa notte suor Marcella caricò sulla jeep i bambini kosovari e li portò oltre confine, dandoli in custodia alla Croce rossa perché fossero al sicuro. «Quando la mafia albanese venne a sapere del tiro che gli avevo giocato giurarono di farmela pagare e così quarantott’ore più tardi mi trovai la missione assaltata e solo l’intervento del battaglione San Marco salvò me e le altre persone con cui lavoravo».

Via dall’Albania, suor Marcella venne mandata prima in Mozambico e poi, nel 2000, nell’Amazzonia brasiliana, sull’isola di Parintins, dove si occupò della cura e dell’educazione dei bambini di una favela e lì diede vita a un centro che accoglie ancor oggi oltre 700 ragazzi. «Io ho abbracciato la povertà; ho deciso di essere francescana perché con gli ultimi e dove non c’è ricchezza credo che si trovi la parola di Cristo e si possa compiere il dovere di cui Dio mi ha incaricata. Poi il fatto che mi sono sempre occupata di zone limite non è una scelta che viene da me, ma è un compito che mi è stato affidato per il mio cammino di fede. Se però in Brasile c’era una povertà “sorridente”, che faceva trasparire la voglia di rinascita, ad Haiti ho trovato invece una situazione devastante».

Era il 2005 quando suor Marcella arrivò a Port au Prince. L’allora vescovo della capitale, monsignor Serge Miot, le chiese di lavorare nella baraccopoli di Waf Jérémie, un quartiere nato inizialmente come discarica cittadina e popolato da coloro che cercavano nei rifiuti il proprio sostentamento. Poi a vivere nello slum arrivarono anche gli immigrati che provenivano dalle aree rurali e l’unione di oltre 300 mila persone condannate alla miseria fece di Waf Jérémie una roccaforte di bande armate e traffici illeciti. «In principio non c’era nulla, se non un odio nei confronti di chiunque. Per farmi accettare incominciai a lavorare giorno e notte con una clinica mobile che offriva servizio medico agli abitanti. Poi, dopo aver preso confidenza, diedi vita al progetto vero e proprio, che prosegue ancora oggi».

Quindi suor Marcella, insieme a un gruppo di giovani locali, costruì la prima clinica medica stabile, ma le difficoltà nel suo percorso missionario erano solo all’inizio: «Le bande armate non accettarono il mio intervento e così uccisero Lucien, uno dei miei collaboratori. Un monito per farmi capire che non volevano nessun cambiamento». Suor Marcella parla dello sconforto, dei momenti di disperazione e della fede in Cristo che le diede la forza di rimanere. Così, anche dopo il terremoto e l’epidemia di colera, che oggi la missionaria ricorda con delle fotografie che la vedono impegnata a soccorrere malati, decise di proseguire il suo cammino tra le persone di Waf Jérémie. «I giorni del terremoto furono un inferno ed è stata in questa baraccopoli che l’epidemia di colera ebbe inizio. Adibendo la clinica medica che avevamo costruito a centro di assistenza per i malati, riuscimmo a contenere il focolaio e, dopo le prime 48 ore, non si verificarono più decessi».

Oggi nel centro creato da suor Marcella oltre 80 bambini orfani figli di madri decedute per Aids, di cui 7 sieropositivi e altrettanti affetti da gravi handicap, si divertono tra piscine e giochi colorati. Una scuola elementare accoglie gratuitamente più di 330 studenti, una clinica lavora ininterrottamente per tutti i residenti dello slum e, pronto per essere inaugurato, c’è anche un asilo per 250 bambini. «Nel settembre del 2013, il presidente Martelly, sorvolando in aereo Port au Prince, si accorse dall’alto di questa missione e, vedendola come un’isola tra un mare di baracche, decise di venirmi a trovare per capire cosa avessi realizzato», racconta suor Marcella. Dopo aver visitato il luogo, il presidente le disse: «Sorella, se lei è riuscita a fare tutto questo, anch’io devo riuscire a salvare questo quartiere!».

Michel Martelly diede così vita a un’opera di bonifica e riqualificazione dello slum e oggi suor Marcella, immersa tra i colori della sua missione e accarezzata dal vento che soffia dal mare, riflette: «Se tutto questo è stato possibile è perché il Signore ha voluto così, ha dato una dimostrazione che non bisogna mai darsi perduti e ovunque nel mondo, grazie alla fede, c’è speranza».

 

Testo di Daniele Bellocchio

Foto di Marco Gualazzini

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