N. 9 2015 1 mazo 2015
Sommario 9 - 2015

Credere n. 9 - 01/03/2015

Insieme di don Antonio Rizzolo

100 numeri per raccontare che credere dona la vera gioia

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Il mestiere della gioia

La “gioia della fede”? Per il monaco benedettino è un’esperienza di pienezza che fa sentire il peso della vita così leggero…

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Per una lettura completa...

fratel Michael Davide Semeraro

Il mestiere della gioia

La “gioia della fede”? Per il monaco benedettino è un’esperienza di pienezza che fa sentire il peso della vita così leggero da essere continuamente portati a muoversi.

 

In foto: Suor Marcella nel centro da lei promosso a Waf Jèrèmie

 

«La gioia, che per il pagano fu una piccola agitazione esteriore, è il gigantesco segreto del cristiano». È la conclusione a cui arriva lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton nel suo Ortodossia, titolo all’apparenza grave che nasconde pagine brillanti e gustosissime. Come il cristianesimo, secondo molti: castigato fuori, incandescente dentro. Neanche fosse un vulcano. O forse sì? Ne parliamo con fratel MichaelDavide Semeraro, monaco benedettino presso la comunità della Visitazione di Rhêmes-Notre-Dame, autore di numerosi volumi, tra cui i più recenti dedicati ai salmi penitenziali (Il grido dell’anima, Edizioni Terra Santa) e all’Anno della vita consacrata (Non perfetti, ma felici, EDB).

Quali sono le caratteristiche della gioia?

«Quando una persona nella sua vita è gioiosa, normalmente è in movimento: danza, cammina, canta. Una persona depressa si sprofonda a letto. La gioia è un’esperienza di pienezza che fa avvertire il peso della vita così leggero da essere continuamente portati a muoversi. Un altro tratto della persona gioiosa è essere ilari, cioè fare il possibile per alleggerire e rendere più facili le relazioni con gli altri. Inoltre la gioia è il contrario della tristezza, che gli antichi consideravano un vizio e per i Padri della Chiesa è sempre un sintomo di attaccamento a se stessi. La gioia è dunque libertà da se stessi che permette di essere in comunione profonda sia con la propria interiorità che con gli altri».

E la gioia del Vangelo? Ha qualcosa in più?

«Prendo uno spunto dal tempo liturgico. La Regola di san Benedetto invita i monaci a vivere la Quaresima attendendo “con gioia” la santa Pasqua. La gioia cristiana è sempre protesa ad altro e agli altri. La gioia cristiana è sempre un’esperienza esodale e pasquale, che ci mette ancora più radicalmente in cammino, portandoci oltre dove siamo arrivati. La Quaresima è, quindi, il tempo della gioia, perché prepara i nostri cuori a vivere quella della Pasqua. È come se ci venisse detto: “Attenzione! Senza questo cammino di alleggerimento e di lavoro su te stesso non potrai sperimentare la gioia!”. Perché la gioia non s’improvvisa. È qualcosa che riceviamo, ma che dobbiamo anche saper custodire.

Gesù dice «affinché la vostra gioia sia piena», come se avesse portato a compimento non solo la Legge, ma anche la gioia!

«Il Signore Gesù ci ha comunicato la possibilità di entrare nella vita di Dio, ma non in modo passivo, perché questa gioia esige tutta la nostra partecipazione e dunque tutta la nostra passione. “Passione” che significa sia “ardore”, sia capacità di pagare il prezzo di questa intimità con Dio. È qualcosa che deve diventare stile di vita e spingerci ad andare oltre tutte le forme di ripiegamento su noi stessi».

Questa consapevolezza pare cresciuta insieme al concilio Vaticano II. Da Giovanni XXIII, “papa buono”, a Giovanni Paolo I, “papa del sorriso”, da Giovanni Paolo II, “papa dei giovani”, a Benedetto XVI, “papa della ciòia”.

«La rivoluzione del Concilio, come ebbe a dire Giovanni XXIII sul letto di morte, non fu un cambiamento del Vangelo, ma una intelligenza più profonda del Vangelo stesso, che portò la Chiesa a riscoprire – oltre l’elemento sacrificale che ha colmato secoli di spiritualità – quell’elemento originario di evangelium, cioè di “lieto annuncio”, che consente anche una “vivibilità” del messaggio cristiano».

Francesco, poi, è il nome della “perfetta letizia”.

«Oggi raccogliamo i frutti di questi 50 anni successivi al Concilio e, con l’Evangelii gaudium di papa Francesco, la gioia non è solo nel titolo, ma nella sua proposta di cammino e di conversione alla Chiesa. Ci chiede di non avere una faccia da funerale, perché abbiamo a lungo confuso l’esigenza del Vangelo con un atteggiamento un po’ negativo nei confronti della vita. Un detto dei rabbini avverte che nel Giudizio finale a ognuno sarà chiesto conto delle gioie di cui non ha saputo godere. E il teologo dell’Oriente Nicola Cabasilas, nel suo Trattato ai divini misteri, ci mette in guardia: il cristiano è davanti a una tavola imbandita di cui non rischia di assaporare nulla perché gli mancano le papille gustative. Ecco, non solo i sacramenti, ma tutta la vita è un apprendistato alla gioia che ci è promessa, poiché camminiamo verso il regno di Dio».

Di quale gioia abbiamo oggi più bisogno?

«La carica profetica del Vangelo ci mette in guardia verso il superficiale benessere, perché la gioia non è un dono facile. È un lavoro. Richiede tutto noi stessi affinché, come dice Gesù alla vigilia della sua passione, sia qualcosa di duraturo, “una gioia che nessuno vi potrà togliere”. E questo nella misura in cui sapremo passare per la logica pasquale».


Testo di Paolo Pegoraro

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