N. 1 - 2017 1 gennaio 2017
INSIEME di don Antonio Rizzolo

Sia per tutti un anno ricolmo della gioia che viene da una fede vissuta

Il nostro settimanale si propone di percorrere con tutti i lettori il cammino della fede, come un affidabile compagno di…

Padre Jacques Mourad

Il dialogo è l’unico cammino verso la pace

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Il 2017 è arrivato e ci sono tanti interrogativi che vorrei rivolgergli. In attesa di qualche risposta.

Per una lettura completa...

Padre Jacques Mourad

Il dialogo è l’unico cammino verso la pace

Nonostante il drammatico rapimento - più di quattro mesi nelle mani di Daesh - il monaco siriano è ancora convinto che si possano «costruire ponti». Abbiamo raccolto la sua straordinaria testimonianza di fede

Civili in mezzo alle macerie raccolgono effetti personali

Mettetevi nei panni di un monaco cristiano che, nella Siria sconvolta da cinque anni di guerra, è stato rapito da Daesh, il gruppo terroristico più sanguinario in circolazione, ferocemente nemico dei “nazareni”. Immaginatevi di avere ricevuto per diversi giorni la stessa proposta, che in realtà è una minaccia: o l’abiura della fede cristiana e la conversione all’islam oppure la morte per decapitazione. Non solo: a un certo punto, nel bagno senza finestre in cui siete rinchiusi, vi si para davanti uno dei capi di questo gruppo di tagliagole. Eppure, alla fine, incredibilmente – forse sarebbe più corretto dire, miracolosamente – riuscite a uscirne vivi, senza un graffio.

Ascoltare padre Jacques Mourad, mentre ricostruisce i quattro mesi e venti giorni del suo rapimento avvenuto nel 2015, è quasi come immergersi nella trama di un film, se non fosse che il contesto, la guerra in Siria, è una dura realtà ed è tutt’altro che a lieto fine.

Sguardo mite, sorriso caldo, la schiena leggermente curva – chissà se per le tante ore di preghiera o per la lunga prigionia ? padre Jacques è passato da Milano per fare il punto sul progetto che coinvolge alcuni ragazzi siriani e l’Università Cattolica. Lo incontriamo, per coincidenza, nel giorno del compleanno di Paolo Dall’Oglio, gesuita romano che ? proprio insieme al siriano Jacques ? nei primi anni Novanta ha fondato la comunità di Mar Musa, ristrutturando un antico monastero in rovina.

Uniti da tanti anni di testimonianza silenziosa della fede cattolica e di impegno instancabile per il dialogo con i musulmani, i due hanno anche condiviso la stessa drammatica esperienza del rapimento, ma del gesuita purtroppo non si hanno più notizie da tre anni e mezzo. Inevitabile, parlando con il monaco siriano, tornare proprio lì, ai mesi drammatici della detenzione.

Nonostante le minacce di morte, ha rifiutato di rinnegare Gesù: la sua fede non ha mai vacillato?

«Assolutamente sì, nella prima settimana dopo il rapimento. Non capivo nulla di quanto stava succedendo. Ero ferito interiormente, impaurito, preoccupato. Mi chiedevo che cosa il Signore volesse da me. Dopo il rapimento di padre Paolo, ecco il mio: proprio noi due che abbiamo fondato la comunità di Mar Musa. Pensavo ai miei confratelli, a come avrebbero reagito, al loro futuro. Soprattutto c’era un pensiero che mi tormentava: “Ma come?”, mi dicevo, “noi ci siamo consacrati al dialogo con l’islam, e ora sono proprio loro, i nostri fratelli musulmani, a ucciderci?”. Poi, l’ottavo giorno è successa una cosa che ancora oggi non riesco a spiegarmi». Ci racconti... «Nella piccola stanza in cui ero recluso è entrato il wali (governatore, ndr) di Raqqa, la “capitale” siriana di Daesh. Ha cominciato a parlarmi in tono gentile, mentre prima dai miei carcerieri avevo ricevuto solo minacce di morte. Abbiamo conversato pacatamente di politica e anche delle nostre rispettive fedi, cosa normalmente impensabile quando hai di fronte un jihadista. Poi, prima di andarsene, mi ha detto una cosa che ha segnato tutto il resto della mia prigionia: “Padre, consideri questo come un tempo di ritiro spirituale”. Ed è proprio quello che ho fatto».

Dunque, da quel momento la paura di morire è passata?

«In realtà, sono rimasto dell’idea che sarei morto. Non vedevo oggettivamente altre possibilità: un giorno qualcuno sarebbe arrivato a tagliarmi la testa. Ma la paura ha lasciato posto a una grande pace. Pregavo molto, soprattutto il rosario, e aspettavo questo momento con disponibilità e persino con gioia, perché pensavo: “Non sono il primo e non sarò l’ultimo. Sono una delle migliaia e migliaia di vittime di questa guerra, forse è una cosa giusta che io sia in comunione con tutte queste vittime”. E poi essere martiri per il Signore è un onore».

Si può dire che quella incredibile conversazione con il capo jihadista sia stata il segno che un dialogo è comunque possibile, anche con il nemico più acerrimo?

«Quello che posso dire è che io sono tornato da questa esperienza di prigionia con la convinzione ancora più forte che il dialogo è l’unico cammino efficace per diminuire la violenza e realizzare una vera pace. Detto questo, occorre essere chiari: il mondo musulmano ha molti problemi al suo interno, si confrontano visioni diverse. Peraltro anche il mondo cristiano deve affrontare molte sfide, noi forse siamo più bravi ad abbellire il nostro “edificio”... Ognuno è invitato a migliorare se stesso, ma anche a costruire ponti con l’altro».

Le statistiche però ci dicono che i cristiani in Siria, in Iraq e un po’ in tutto il Medio-Oriente, sono sempre meno. Più che il dialogo prevale la scelta di fuggire dalla violenza...

«In questa situazione di guerra non c’è alternativa, e non sono solo i cristiani a fuggire. È vero, però, che sembra esserci un più ampio progetto di rimozione della presenza dei cristiani, ma è un progetto politico, voluto dalle potenze della regione, non è un progetto religioso imputabile all’islam. Non sono molto ottimista per il futuro, ma noto una cosa: dove la comunità cristiana è viva, dove i pastori sono vicini al popolo, la gente rimane. Penso alla nostra comunità di Nabek: i progetti umanitari sono portati avanti integralmente, non ci si limita a fornire soldi o una razione di cibo, si prega insieme e si offre sostegno psicologico, si pensa alla scuola di musica e alla ricostruzione delle case, e così via. Allora i cristiani non scappano, anzi ritornano».

Tornando al suo rapimento, a un certo punto è stato riportato nel villaggio di cui era parroco, che nel frattempo era stato occupato dai terroristi. Una specie di reclusione collettiva insieme ad altri 250 cristiani. Che cosa ha significato vivere questa esperienza con la sua comunità?

«È stata una grande occasione per confermare la mia fede. Ho visto come la mia comunità ha resistito all’incredibile pressione psicologica esercitata dai rapitori. Solo una persona, purtroppo, non ha retto la tensione e si è messa a pronunciare parole blasfeme, venendo ucciso dai jihadisti. Ho toccato con mano come i cristiani possono essere solidali, forti nella loro fede, davanti alla morte. Poi la Provvidenza ha voluto che prima io, poi tutti gli altri rapiti, riuscissimo a fuggire».

Prima, però, ha dovuto affrontare un’altra esperienza drammatica: vedere il monastero di Mar Elian, seconda “casa” della comunità da voi fondata, raso al suolo dagli uomini di Daesh. Che cosa ha provato?

«Sinceramente nulla. Né tristezza, né rabbia o disperazione. Dopo questa esperienza di prigionia considero che nessuna cosa abbia davvero importanza. Tutto finisce. L’importante è l’uomo, ciò che è sacro è l’uomo. Io non ho più niente e sono contento, libero. Questa è la vera libertà».

IL PROGETTO. Cinque giovani siriani studiano all'Università Cattolica
Si chiamano Nour, Toufik, Ola, Kenan e Fadi i cinque ragazzi siriani arrivati a Milano nel settembre 2016 grazie a un progetto che mette in contatto l'Università Cattolica e la comunità monastica di Mar Musa, con la collaborazione dell'arcidiocesi di Milano. Hanno tra i 20 e i 28 anni, sono cristiani e si fermeranno tre anni per completare i percorsi di studio che intraprenderanno nelle sedi di Milano e di Piacenza. Il sogno, non lo nascondono, è tornare in una Siria in pace, per dare il loro contributo a una ricostruzione che dovrà essere anzitutto morale e culturale. Piccoli semi di speranza, che padre Mourad spera vengano presto piantati anche in altri atenei italiani.

Testo di Stefano Femminis

foto Omar Sanadiki-Reuters

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