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Pietro Bartolo
Io, medico della speranza davanti a un mare di disperazione
Parla il dottore di Lampedusa fra i protagonisti del film di Fuocoammare, premiato al Festival di Berlino: «Lavoro gratis tutte le notti, mi sembra giusto così»
Le mani di Pietro hanno imparato a usare la forza per tirare le reti da pesca. E la delicatezza per muovere con sapienza l’ecografo o far nascere un bambino. Ma anche l’attesa silenziosa per cercare il flebile battito di un polso. E la pietà, per impartire l’estrema benedizione prima di rinchiudere un cadavere in un sacco. Mani di uomo di mare, di medico, che maneggiano con disagio i due telefonini che squillano senza sosta. «Non vedo l’ora di tornare al mio lavoro. Anche stanotte ci sono stati sbarchi». Pietro Bartolo è il direttore dell’Azienda sanitaria di Lampedusa.
Ha iniziato a lavorare qui nel 1991, quando l’isola ha accolto i primi tre nordafricani approdati sulle sue coste. Da allora ogni migrante sbarcato a Lampedusa, vivo o morto, è passato per le mani di Bartolo: «In questi 25 anni, più di 250 mila».
HA ISPIRATO IL FILM
È uno dei protagonisti del film-documentario Fuocoammare, che ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino. Da lui è partita la suggestione che ha dato l’input decisivo al regista. Gianfranco Rosi, infatti, era arrivato sull’isola per filmarla, ma dopo qualche mese aveva pensato di ripartire, non avendo trovato la chiave del racconto. È passato da Bartolo per farsi curare una leggera indisposizione, hanno iniziato a parlare e sono andati avanti per più di tre ore. «Gli ho mostrato l’archivio di foto, poi gli ho consegnato una chiavetta». Rosi non è più ripartito. Ed è nato il capolavoro, in cui il medico compare nella quotidianità, tra sbarchi, visite, incontri con i lampedusani: «Ci sono dei pezzi montati nel film in cui neanche mi sono accorto di essere ripreso». Rosi ha voluto che il trofeo andasse all’isola e lo ha consegnato al dottor Bartolo. Che, in trasferta a Roma per incontrare la presidente della Camera, Laura Boldrini, l’Orso d’oro nello zainetto blu, ne approfitta per una visita a San Pietro.
ESTIMATORE DEL PAPA
«Papa Francesco è una grande persona. Quando è venuto a Lampedusa l’ho incontrato e abbracciato. Ho la foto nello studio». Viso stanco, con gentilezza risponde alle telefonate dei giornalisti e ai conoscenti che chiamano per fargli i complimenti. Come Omar, che dalla Svezia gli manda un messaggio di amicizia: «Dopo essere sbarcato, è stato diversi mesi con me e mia moglie a Lampedusa, lo abbiamo “adottato”».
Rita, la moglie, ritorna spesso nella conversazione. Unico maschio di sette figli, dopo le scuole medie e il tirocinio come pescatore sulla barca paterna, Pietro a 13 anni viene mandato in Sicilia, come ancora oggi tutti i ragazzi lampedusani che vogliono continuare negli studi. A Siracusa, al liceo, conosce Rita e da allora non si lasciano più. Insieme gli studi di Medicina a Catania, dove Pietro si specializza in ostetricia e ginecologia, nell’83 il matrimonio e poi il ritorno a Lampedusa.
Oggi, a 60 anni, festeggiati il 10 febbraio, e dopo tre figli – due femmine e un maschio, ormai adulti – Pietro afferma senza dubbio: «È lei che mi dà la forza, non si lamenta mai, mi capisce, mi sprona, mi supporta e mi sopporta». Eh già, perché non deve essere facile condividere la vita con chi ha scelto di farsi carico delle migliaia di persone che sbarcano a tutte le ore: «Non sarebbe mio compito. Ma ho accettato di occuparmi dei migranti. Lo faccio gratuitamente», dice Bartolo.
NON LI CHIAMA CLANDESTINI
Perché? «Mi sembra giusto così. Sono persone, non riesco a chiamarli clandestini, mi sembra una parola brutta. Io penso che la terra è di tutti, né mia, né sua, né di Obama o Hollande… Se questi sono clandestini, lo siamo tutti». Una scelta che negli anni si è complicata: «Mi chiamano tutte le notti, mia moglie si sveglia con me. Grazie a lei, alla sua forza, continuo. Ci sono momenti in cui sono demoralizzato, quando vedo cose brutte». Lo sguardo diventa triste, gli occhi lucidi. Non è vero che ci si abitua alla morte e al dolore. «È sconvolgente vedere i cadaveri di donne e bambini. Ho davanti agli occhi una donna che aveva partorito durante il naufragio, il bambino ancora attaccato al cordone ombelicale… Sono cose strazianti».
LO SBARCO DEL 3 OTTOBRE
Pietro racconta come una nenia dolorosa dello sbarco dell’ottobre 2013: «Ci sono stati 368 morti, non 366 come dicono. Nel conto ho messo anche altri due cadaveri, in decomposizione avanzata, che sono stati recuperati insieme a quelli del relitto. Non sono numeri, sono persone». Ricorda i primi 111 sacchi neri disposti in fila. «Quando devo fare un’ispezione cadaverica sono preso da forte agitazione. Giro intorno al sacco, non lo voglio aprire, poi mi faccio coraggio. Mi avevano detto che c’erano tanti bambini. Ho sperato di non cominciare con uno di loro… E invece nel primo sacco, lo ricordo ancora, c’era questo piccolo con i pantaloncini rossi. Sembrava vivo, l’ho appoggiato al petto, lo scuotevo… Ma non c’era nulla da fare». Fra tanto dolore, 24 ore di seguito per esaminare tutti – «non riuscivo ad andare a casa, volevo arrivare alla fine» – c’è però anche una gioia inattesa. Sulle imbarcazioni dei lampedusani, i primi ad accorrere dopo la tragedia, Pietro cura alcuni sopravvissuti e si appresta a ispezionare i cadaveri. «Il mio amico Domenico, il comandante, piangeva, era disperato perché era riuscito a salvare solo alcuni mentre gli altri migranti, coperti di gasolio, gli scivolavano giù e venivano risucchiati dalle onde. Sul ponte c’erano quattro corpi pronti per i sacchi, tre uomini e una ragazza giovanissima: le ascolto il polso e dopo un po’ sento un battito lento, flebile». Kebrat oggi vive in Svezia. E Bartolo spera di poterla riabbracciare prima o poi.
Un segno di speranza è anche la piccola ludoteca che Pietro ha voluto creare accanto al poliambulatorio. Innamorato dei più piccoli, aveva notato che quando visitava le donne gravide sbarcate, accompagnate da altri figli, questi ultimi manifestavano paura nel vedere la mamma adagiata sul lettino. «Poveri piccoli, chissà quali traumi hanno subìto. Così ho allestito una ludoteca, dove proiettiamo cartoni animati in arabo. E facciamo giocare i bambini. Loro si rilassano, vanno poi via con i giocattoli, e anche la mamma, finalmente, ha 15 minuti di pace per poter pensare a sé e alla creatura che si porta in grembo». In questi 25 anni a Lampedusa si sono alternati sindaci, parroci, forze dell’ordine, ma Pietro è l’unico ad aver seguito il fenomeno sin dall’inizio. «Le cose sono state affrontate con serenità perché c’è stata la collaborazione di tutti, con una complicità infinita che ci ha consentito di superare ogni problema. Non ci sono mai state invidie o i tentativi di prevalere sull’altro».
TESTIMONE RESPONSABILE
Ma lui come è cambiato? «Mi viene difficile parlare di me. Tutto questo mi ha toccato dentro l’anima, potrei raccontare migliaia di fatti belli e brutti. Mi fa male… Ogni volta mi emoziono di più». La cura, dice, è accompagnata dalla consapevolezza che è necessario sensibilizzare: «Anche se per me è doloroso, mi sforzo di divulgare, perché spero che attraverso queste testimonianze, come il film del grandissimo Gianfranco Rosi, si possa colpire la sensibilità di chi ascolta. Quando vedo che queste persone, dopo tante sofferenze e disagi, sapendo di rischiare la vita, arrivano in un Paese “civile” e si trovano davanti filo spinato, muri, vengono rifiutate come se avessero commesso chissà quale reato, penso che è una cosa disumana. Evidentemente anche io non sono stato bravo fino a oggi. E me ne sento responsabile».
C’è anche una motivazione di fede in quello che fa? «Non sono un bravo cristiano, perché spesso non vado in chiesa. Dico che non ho tempo, ma so che – se si vuole – il tempo si trova. Però credo molto, prego spesso e – lo dico quasi come una confidenza – non posso lasciare un cadavere se non lo benedico. Dico delle parole mie, una piccola preghiera e lo affido a Dio. È nella mia facoltà. Molti forse sono cristiani, altri sono musulmani. Ma io so che Dio è uno solo e se sbaglio parole… ci pensa Lui».
Testo di Vittoria Prisciandaro