N. 11 - 2018 18 marzo 2018
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Per una lettura completa...

Padre Luciano Lotti

Un santo di famiglia

Parla il figlio del professor Francesco Lotti, uno dei medici che con il Cappuccino di Pietrelcina diede vita alla Casa Sollievo della Sofferenza. Da ragazzino servì Messa nell’ultima celebrazione di Padre Pio. «Ora», dice, «occorre andare oltre il sensazionalismo per capire l’autentico messaggio del santo, che non è solo nei miracoli»

Padre Luciano Lotti accanto a una fotograia di Padre Pio giovane nel refettorio antico di San Giovanni Rotondo.

La vita di padre Luciano Lotti è strettamente intrecciata con la storia di due delle grandi opere di Padre Pio: la Casa Sollievo della Sofferenza e i Gruppi di preghiera. Infatti Francesco Lotti, il papà di Luciano, fin dalla fondazione dell’ospedale di San Giovanni Rotondo fu uno dei più stretti collaboratori di Padre Pio e per decenni guidò il reparto di Pediatria come primario. Padre Lotti ha quindi maturato la sua vocazione vivendo l’infanzia a stretto contatto con Padre Pio, fu tra i ministranti che servirono Messa all’ultima celebrazione presieduta dal santo, il 22 settembre 1968, e poi divenne egli stesso Cappuccino. Ora, da pochi mesi, padre Luciano è stato nominato segretario generale dei Gruppi di preghiera di Padre Pio (ne parliamo anche nell’articolo a pagina 30 di questo numero di Credere).

Il legame con il frate di Pietrelcina nella famiglia Lotti prosegue saldo da tre generazioni. «Il primo a conoscere Padre Pio fu mio nonno», racconta padre Luciano. «Lui era un commerciante bolognese pesantemente colpito dalla crisi economica del 1929. Incontrò Padre Pio ed egli lo aiutò a ritrovare serenità e speranza, ma morì giovane d’infarto. Mia nonna, rimasta vedova, conobbe a sua volta Padre Pio e questi consolò mio papà e mio zio dicendo: “Rimanete vicino a me e vi farò io da padre”».

Poi suo papà ebbe una parte di rilievo nella nascita della Casa Sollievo della Sofferenza...

«Arrivata la guerra, mio papà avrebbe dovuto partire per la Grecia, ma Padre Pio gli propose una scommessa: se non sarai chiamato al fronte dovrai studiare Medicina. E così avvenne: lui aveva già in mente la Casa Sollievo della Sofferenza e si stava procurando del personale… Mio papà pensava di specializzarsi in Chirurgia, ma Padre Pio gli disse: “No, mi serve un pediatra”. Finiti gli studi, iniziò quindi a lavorare a San Giovanni Rotondo e nel 1951 conobbe mia madre, incontrandola seduta accanto a lui sul banco della chiesa. Padre Pio alla fine della celebrazione gli disse: “Francesco, ti è piaciuta? L’hai guardata per tutta la Messa…”. Si sposarono e nascemmo io e mio fratello Carlo».

Per lei che ruolo ha avuto san Pio?

«A undici anni confidai proprio a lui che desideravo entrare in convento, ma egli lo aveva già capito. Con la morte di Padre Pio ebbi un po’ di disorientamento, ma poi ha continuato a essere per me un punto di riferimento spirituale. Appena sacerdote sono stato mandato a Montefusco, in provincia di Avellino, e ho vissuto in prima persona il sisma dell’Irpinia. Per cinque anni ho fatto il parroco terremotato, ho assistito la popolazione che aveva perso affetti e casa: anni duri, ma di ministero entusiasmante, immerso nel sociale, forse il periodo più bello. Poi sono seguiti tanti altri incarichi e oggi, oltre alla responsabilità nei Gruppi di preghiera, sono custode del convento dei Cappuccini a San Severo e responsabile dell’Archivio Padre Pio».

C’è un ricordo particolarmente caro che porta nel cuore?

«Quando si serviva la Messa in latino, la risposta più difficile era il Suscipiat. La prima volta che servii per Padre Pio avevo sei anni. Lui, con voce ostentatamente burbera, mi disse: “Recita il Suscipiat”. E io: Suscipiat Dominus sacrificium de manibus tuis…”. Avevo imparato tutto a memoria. E lui, tutto contento, mi fece un sorriso così grande che mi accompagna ancora».

Come nacque in Padre Pio l’idea dell’ospedale?

«Io penso che Padre Pio fosse spinto da diverse motivazioni. La prima nasceva dalla sua esperienza di ausiliario (cioè inserviente) all’ospedale militare di Napoli durante la Prima guerra mondiale. Lì tocco con mano la sofferenza, le mutilazioni… La seconda deriva dalla sua vita da malato: era un po’ arrabbiato con i medici, perché vedeva le inefficienze del sistema sanitario. Ma vedeva anche la povera gente del Gargano che non aveva un luogo per curarsi, aveva visto sua madre morire per mancanza di assistenza!».

La Casa Sollievo della Sofferenza è definita «l’opera più bella» di Padre Pio, ma a ben guardare lui ne fu sì l’ispiratore, ma non, in senso stretto, il fondatore.

«È vero. Ed è una questione su cui mi batto da una vita: ricordare la fiducia che Padre Pio aveva nei laici. L’atto fondativo del 9 gennaio 1940 è firmato da cinque persone, uomini e donne, tra le quali non c’è Padre Pio. Lui aveva il ruolo di guida spirituale, formava i laici, ma poi lasciava a loro la responsabilità. E oggi Casa Sollievo ha una grande responsabilità: la sanità non è solo progresso nelle cure e nella ricerca. Occorre anche trasparenza e onestà sul piano amministrativo: l’esempio di un laicato che per conto della Chiesa svolge una missione benefica senza scorciatoie. Perché il fine non giustifica il mezzo».

Un’altra opera di Padre Pio che continua ancora oggi sono i Gruppi di preghiera, di cui lei dallo scorso luglio è il segretario a livello mondiale. Ce ne racconta la storia?

«La gente veniva a San Giovanni Rotondo da Padre Pio, si fermava alcuni giorni, si confessava, partecipava alla sua Messa, al Rosario… Ma poi i devoti tornavano a casa e l’ardore si affievoliva. Allora Padre Pio aveva iniziato a raccomandare ai suoi figli spirituali delle catene di preghiera. Poi, durante la Seconda guerra mondiale, papa Pio XII invitò tutti i fedeli del mondo a ritrovarsi a pregare per la pace. E così Padre Pio chiede ai suoi figli spirituali di rispondere all’appello. Dopodiché inizia il binomio preghiera e carità: i gruppi cioè si strutturano maggiormente e si ritrovano sia per l’orazione che per sostenere la Casa Sollievo. Padre Pio chiese che ci fosse sempre un sacerdote di riferimento perché voleva una fedeltà assoluta alla Chiesa; è un aspetto su cui io oggi insisto molto: qualche volta c’è il pericolo che i gruppi siano pervasi da una certa tendenza al tradizionalismo, ma io dico che mai deve uscire una critica al Papa e invece ci si deve formare sul suo magistero. E poi insistiamo sulla preghiera nella comunità che deve essere al servizio della parrocchia, senza la tentazione di farsi la “propria Messa”, la “propria ora di adorazione”…».

Lei parla del rischio del tradizionalismo, cioè l’opposizione alle novità nel magistero della Chiesa e in particolare a quello di papa Francesco. Tra i devoti di Padre Pio c’è anche il rischio di una deriva “miracolistica”?

«Beh, quello non è un rischio… Purtroppo è una realtà! Allora partiamo dalla realtà e diciamo che i miracoli sono la start up di padre Pio, cioè il punto di partenza: la gente arriva da Padre Pio perché ha il tumore, la disgrazia, oppure ritiene sia successo qualcosa di straordinario a un conoscente e vuole capire… Del resto succedeva così anche con Gesù: la gente andava da lui per i miracoli. Adesso tocca a noi far compiere un passo avanti, anche se non nascondo che è una lotta contro i mulini a vento, perché accanto a noi c’è un mondo della comunicazione che di Padre Pio capisce solo i miracoli (e il più delle volte vengono venduti come tali episodi che miracoli non sono: gente che sarebbe guarita lo stesso, suggestioni che portano a vedere immagini che si formano sui muri…). Ma Padre Pio ridotto al sensazionale non è l’autentico Padre Pio: servono comunicatori che raccontino cose più importanti sui suoi insegnamenti, sulla sua spiritualità. E posso assicurare che, se lo si sa fare bene, fanno audience anche queste cose».

E allora cosa si può dire oggi di bello sull’autentico Padre Pio?

«Che lui è la teologia del corpo. Nel nostro secolo abbiamo l’idolatria del corpo, ma i corpi malati ci fanno schifo. Sì, proprio schifo. Davanti a Padre Pio, invece, la gente chiedeva di baciare un corpo brutto, pieno di ferite. E sa perché? Perché in lui la gente riconosceva il corpo trasfigurato. Noi esaltiamo la croce, la sofferenza di padre Pio, invece dovremmo esaltare che un corpo crocifisso è segno di speranza. Padre Pio diceva: “Dopo il Calvario c’è sempre il Tabor”, mentre per la cultura di oggi il Calvario è l’ultima tappa, senza speranza. A noi questo dice che il corpo è bello e santo: quello della tua ragazza come quello del malato e del morente. Ma sono autenticamente belli se li guardi come corpo destinato alla trasfigurazione».

Testo di Paolo Rappellino - Foto di Roberto Salomone

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