N. 12 2014 23 marzo 2014
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Sud Sudan: le rilfessione

Senza perdono non c’è futuro

Da Juba parla padre Moschetti, superiore dei Comboniani: «La parola più in voga è vendetta, ma serve riconciliazione. Seguendo l’invito del Papa, non ci faremo rubare la speranza: un tempo così spietato si rivelerà una storia di salvezza».

 

Foto REUTERS

 Foto Reuters. 

«La vera sfida in Sud Sudan è la riconciliazione. Senza un cammino all’insegna del perdono non ci sarà futuro per questo Paese».A parlare così, con un misto di speranza che gli viene dalla fede e il realismo di chi ha vissuto per lunghi anni in Africa, è padre Daniele Moschetti, cinquantenne, originario del Varesotto, da tre anni superiore dei Comboniani in Sud Sudan.

Indipendente dal 2011, il Paese da mesi si trova dilaniato da una lotta intestina che lo sta paralizzando. «Il conflitto», spiega il missionario, «si è concentrato nei tre Stati petroliferi, che sono tra i più poveri pur essendo potenzialmente ricchissimi. Stiamo parlando di un’immensa zona paludosa: 30 mila chilometri quadrati di paludi che possono diventare 100-120 mila. Quasi un milione di persone stanno scappando negli Stati vicini; non hanno più nulla, mancano il cibo e l’acqua potabile». Tutto è cominciato quando, lo scorso 15 dicembre, le tensioni interne al Splm (il partito che ha guidato il Paese all’indipendenza e lo governa da allora) hanno prodotto uno scontro armato a Juba nelle caserme militari tra le due fazioni (quella del presidente Salva Kiir e quella del suo ex-vice Riek Machar): in due giorni sono rimasti sul terreno oltre 500 morti. Da allora, nonostante l’intervento della comunità internazionale – sono in corso trattative di pace ad Addis Abeba – la situazione è ancora delicatissima e, al momento, non si vede una soluzione. «Quel che è peggio è che il conflitto da politico sta diventando tribale, tra Dinka e Nuer, le due etnie principali», sottolinea padre Moschetti. Senza dimenticare che «la presenza del petrolio nel sottosuolo delle aree di conflitto è un ulteriore elemento di frizione».

«Dinka e Nuer devono incontrarsi e riappacificarsi nel profondo. È una sfida che chiama in causa l’educazione, a partire dai giovani», continua Moschetti. «Negli anni scorsi tutti erano uniti contro un nemico comune: il 98 per cento della popolazione ha votato per l’indipendenza. Ma sapevamo bene che il nodo vero era la collaborazione (o meno) tra queste due etnie: i Dinka, che contano 3-4 milioni di persone, e i Nuer, un milione. Ci aspettavamo tensioni, ma non con questa violenza, con tante atrocità da entrambe le parti. Tante ferite del passato, mai rimarginate, oggi si riaprono».

«La parola più in voga, di questi tempi, è revenge, “vendetta”, mentre “riconciliazione” nel vocabolario di queste tribù non esiste», incalza padre Moschetti. Difficile, peraltro, parlare di perdono proprio ora, nel momento in cui la diocesi di Malakal (che comprende tutti e tre gli “Stati petroliferi”) è stata letteralmente spazzata via poche settimane fa. Tutti i preti diocesani sono dovuti fuggire. Eppure è quanto chiedono i vescovi locali, sottolinea Moschetti. Che invita a non dimenticare «gli esempi positivi registrati anche in momenti duri come questo: persone di un’etnia che hanno salvato gente dell’etnia diversa. Ho in mente un nuer che ha cercato di salvare dei soldati dinka e, a rischio della vita, è riuscito a farli fuggire». Padre Daniele ne è convinto: «L’educazione integrale è la chiave del futuro e deve procedere di pari passo con la formazione religiosa». Lo sa bene padre Moschetti che – pochi anni fa, quand’era missionario in Kenya (prese il posto di padre Zanotelli nella missione di Korogocho) – vide di persona l’esito delle lotte tribali: 1.500 morti in poche settimane. «Qui in Sudan veniamo da 40 anni di guerre. Ci sono intere generazioni che non hanno mai visto la pace. Gli ultimi otto anni sono stati una parentesi, però non si sono visti molti cambiamenti concreti, la politica ha deluso la gente». Continua: «Se c’è una cosa che abbiamo capito da questa situazione è che il mondo della politica deve essere evangelizzato; troppi leader pensano solo a se stessi, non possiamo assistere inerti a questo. Non basta la Costituzione nuova, occorre far crescere le coscienze».

Un’impresa quasi disperata. «Mi piace citare lo slogan di papa Francesco, “non lasciatevi rubare la speranza”. Lo faccio mio. Come Comboniani siamo poi intimamente legati alla storia di questo popolo: 50 anni fa si verificò l’espulsione di oltre 300 missionari e suore comboniani dal Sudan. Agli occhi del mondo una tragedia irreparabile; in un’ottica di fede, invece, un evento di grazia, che ha permesso alla Chiesa locale di affermarsi. Con la stessa fiducia ostinata, siamo convinti che questo tempo così difficile si rivelerà per quel che è: una storia di salvezza».

Testo di Gerolamo Fazzini

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