N. 12 2014 23 marzo 2014
Antonio Spreafico

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Fabrizio Gatta

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Sud Sudan

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Sud Sudan

Inferno Sud Sudan venti giorni in fuga nella foresta

Di corsa nella boscaglia pregando di non esser colpiti dalle pallottole. Così un gruppo di missionari comboniani si è salvato dalla furia di esercito e ribelli. Il resoconto di un incubo a lieto fine: «Abbiamo perso tutto, ma abbiamo la vita».

 

Suor Agata Cantone nella casa dei religiosi a Juba. Foto di Paolo Siccardi/Sync

 

Suor Agata Cantone nella casa dei religiosi a Juba. Foto di Paolo Siccardi/Sync

Il cortile della casa dei Comboniani a Juba è un’oasi di pace e silenzio. Qui non arriva il rumore dei boda boda, le motorette che ronzano senza sosta nelle strade della capitale del Sud Sudan. Questa tranquillità è benefica per un gruppo di Comboniani, religiosi e fratelli laici, arrivati finalmente a Juba dopo una brutta avventura, una fuga avventurosa dalla guerra, dalla violenze, dagli spari che ancora rimbombano nel cervello.

Fa caldo, ronza il ventilatore e nei bicchieri posati sul tavolo l’acqua fredda dà sollievo. Padre Raimundo Rocha è brasiliano, parroco della chiesa di San Giuseppe lavoratore a Leer, nello Unity State. Padre Yacob Solomon è un prete etiope. Suor Laura Perin viene da Perosa Argentina, provincia di Torino. Suor Agata Cantone, di Paderno Dugnano, è arrivata per la prima volta in Sudan nel 1973. Nicola Bortoli, originario di Limena (Padova) è un fratello laico, direttore della Scuola tecnica di Leer.

Insieme raccontano di come la guerra civile, dopo i primi scontri avvenuti a Juba a metà dicembre, si sia spostata nella loro regione. «A Natale il clima era teso, ma il conflitto stava lontano da Leer e la gente si sentiva sicura», spiega Nicola. A metà gennaio il clima è peggiorato. Lo scontro fra i ribelli di Machar e le forze governative del presidente Salva Kiir si è fatto più duro. «Il 13 gennaio abbiamo sentito spari per tutta la notte e la gente ha cominciato a scappare, fra loro anche alcuni dei nostri catechisti», racconta padre Raimundo. «Nel giro di due giorni Leer si è svuotata, ma noi siamo rimasti», aggiunge Nicola. La situazione precipita a fine gennaio. «I soldati sono venuti da noi», dice suor Laura, «volevano i soldi e le auto. Li abbiamo un po’ placati dando loro cibo e acqua, ma alcuni erano ubriachi. Eravamo spaventati, perché sapevamo che erano già stati devastati l’ospedale di Medici senza frontiere e le sedi di alcune organizzazioni non governative. Ormai sarebbe toccato a noi».

Così si decide la fuga. «Il 30 gennaio, dopo la preghiera del mattino, abbiamo caricato tre auto con qualche provvista di cibo e un telefono satellitare. Nella mia borsa ho messo l’Eucaristia, i libri di preghiera, una statuetta di Nostra Signora di Aparecida, il mio vecchio computer e qualche vestito», spiega padre Raimondo. Fuggono in quattordici: due sacerdoti comboniani e uno diocesano, quattro suore, due fratelli comboniani, un seminarista e quattro laici sud sudanesi. Il gruppo raggiunge Beer, a 28 chilometri da Leer, dove viene accolto dalla comunità cristiana locale. «Pensavamo di essere al sicuro, invece ci siamo trovati nella bocca del leone. Dopo un’ora che stavamo lì ci hanno attaccato», esclama Nicola.

La fuga è precipitosa. «Abbiamo lasciato tutto», dice padre Salomon, «correndo in varie direzioni. Io ho corso per un’ora e mezzo, fin dentro alla boscaglia. Le pallottole volavano vicino alla testa e alle gambe. A un certo punto mi sono tuffato nell’acqua, che in alcuni punti mi arrivava alla gola, c’erano coccodrilli e ippopotami. Sentivo ancora gli spari vicini, non pensavo di uscirne vivo. Ho raggiunto un isolotto e mi sono messo a strisciare nell’erba per non farmi vedere». Suor Laura ricorda il momento più duro: «Quando ci hanno sparato addosso mi sono messa a correre con suor Agata e vedevo che faceva un po’ fatica. Allora ho detto: Signore, pensaci tu. Abbiamo raggiunto la foresta, ci siamo riposate, abbiamo ripreso le forze e poi abbiamo proseguito la fuga».

«Ho cominciato a correre tenendomi strette le mie borse», ricorda padre Raimundo, «ma sono caduto tre volte. A un certo punto mi sono arreso, ero rassegnato all’idea di essere ucciso, ma padre Ernest che era con me mi ha sempre fatto coraggio. Gli spari sono continuati per tre ore, poi alcuni pastori ci hanno visto e sono tornati con Rebeka, una donna della comunità cristiana locale. Ci hanno portato in un luogo sicuro e lì abbiamo ritrovato gli altri del gruppo».

Senza più auto, senza telefono satellitare e senza abiti di ricambio, i fuggiaschi condividono la propria sorte con altri sfollati. Si mette in comune il cibo, si fa bollire l’acqua da bere, di notte ci si protegge con le zanzariere in una zona dove la malaria è endemica. «Eravamo tutti nella stessa situazione, avevamo molto poco, ma avevamo con noi Dio. Ogni giorno alle cinque del pomeriggio abbiamo celebrato la Messa su un altare improvvisato», dice padre Raimundo. Con i pochi soldi rimasti in tasca il gruppo acquista una vacca e delle capre. Le macellano e riescono a condividere un po’ di carne. Avanti così per quasi venti giorni. Suor Laura confida: «La mia paura più grande è stata quella di non riuscire a sopportare per tanto tempo quella estrema povertà e miseria. Avevamo poco da mangiare, non sapevo che cosa ci sarebbe successo, non riuscivamo a comunicare con nessuno, eravamo preoccupati per chi era preoccupato per noi. La gente locale ci ha sempre dato speranza, ci diceva che Dio era con noi».

Un giorno il gruppo riesce a rimediare un telefono satellitare. Si organizza il ritorno a Leer, dove la casa e la scuola sono devastati. Alla fine i Comboniani raggiungono Juba. «Abbiamo perso tutto, anche i passaporti, ma abbiamo la vita», dice Nicola. Suor Agata aggiunge: «Non so come ringraziare tutti i cristiani che ci hanno aiutato lungo la strada. Non potrò mai dimenticare due uomini che ci hanno portato sacchi di mais e di sorgo, caricandoli sulle loro teste. Sono gesti che valgono più di ogni altra cosa».

Testo di Roberto Zichittella

 

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