Cari amici lettori, il 6 aprile 1994 è una data che forse dice poco alla nostra memoria collettiva, ma molti di noi ricorderanno ancora il genocidio avvenuto in Ruanda di 30 anni fa, quando l’etnia degli Hutu (allora al potere), nell’arco di un centinaio di giorni, massacrò – con un piano facilitato dalla specificazione dell’etnia sulla carta di identità – un milione di Tutsi. Uno degli eccidi più esecrabili della storia del Novecento, avvenuto sotto gli occhi impotenti del mondo, frutto amaro di una rivalità etnica fomentata dai colonizzatori belgi sin dagli inizi del Novecento. Il massacro, che vide coinvolti attivamente anche uomini di Chiesa di entrambe le etnie, lasciò una lunga scia di morti e ferite morali nel Paese africano: oltre alle vittime (1.174.000 persone trucidate), migliaia di vedove, donne stuprate, 400.000 bambini orfani. Lentamente, dopo la fine del genocidio il 4 luglio del 1994, si è avviato un difficile percorso per ristabilire la giustizia e sanare le ferite profondissime di un Paese spaccato. In questo buio orrendo non sono mancate anche testimonianze luminose di cristiani Hutu che si sono rifiutati di aderire al massacro pianificato (vedi servizio a pag. 30).
La vicinanza della ricorrenza con la Domenica della misericordia, che quest’anno cade il 7 aprile, mi sembra significativa. Gli esseri umani sono capaci – e veloci –a seminare morte, perpetuando l’archetipo di ogni omicidio, quello di Caino, che è la negazione della fraternità, della stessa vita dell’altro. La stessa che vediamo in Ucraina, a Gaza e in tanti altri scenari di guerra e di violenza. Vediamo come l’odio
semina altro odio, spegnendo ogni umanità, e si radica nelle generazioni, in un circolo vizioso che si autoalimenta. Se ne può uscire? Il Vangelo – e in particolare quello della Domenica della misericordia – ci dice di sì, un nuovo inizio è possibile. Gesù, dopo essere stato abbandonato anche dai suoi amici durante la Passione, una volta risorto li riabilita, con atti che hanno il sapore di un perdono e di una vita nuova. Dà loro appuntamento in Galilea, dove tutto era cominciato. Riabilita Pietro con la famosa triplice domanda «Mi
ami tu?», che richiama il triplice rinnegamento. Riabilita Tommaso, l’apostolo che si è allontanato dalla comunità e non crede alla testimonianza di chi ha visto il Risorto, che misericordiosamente gli appare nonostante la mancanza di fede e lo invita persino a verificare, toccando con mano. Sappiamo che il perdono è un atto profondo, che concede una possibilità di vita a chi si è macchiato di tradimento, di
violenza, un atto che aiuta alla conversione perché pone fine alla spirale dell’odio, ribaltando il male in bene e innescando così un processo di riconciliazione. È un atto appeso al sottile filo della libertà che gli
esseri umani hanno ricevuto in dono. Ma è anche un lungo percorso. Gesù stesso, morendo, ha trasformato un odio mortifero in un atto di amore. E il dono pasquale del Risorto è proprio la pace. Ma questo dono è affidato sempre alla libertà di uomini e donne disposti a lasciarsi afferrare dallo Spirito che il Risorto continua ad alitare nella storia. Anche nelle nostre, se solo Gli spalanchiamo le porte.