N. 17 - 2016 24 aprile 2016
INSIEME di don Antonio Rizzolo

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La visita di papa Francesco a Lesbo ci invita a ritrovare la comune umanità e a riscoprire il valore della solidarietà e…

Annalisa Fioretti

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Annalisa Fioretti

Aiutare gli altri anche quando la terra trema

Medico e alpinista, durante il sisma in Nepal si trovava al campo base dell’Everest. Salva per miracolo, ha curato quanti più feriti possibile. Oggi porta avanti l’impegno per i terremotati: «Cerco solo di amare il prossimo»

Annalisa Fioretti 

Ha soccorso i feriti al campo base dell’Everest anteponendo la vita di sconosciuti al suo benessere. Ha deciso di rimanere ad aiutare il Nepal ferito mentre gli altri componenti della spedizione tornavano a casa. E, una volta rimpatriata dopo quattro settimane di impegno volontario come medico, ha subito pensato a come aiutare i nepalesi. Nonostante la famiglia, i due figli e i “rimproveri” di chi, anche fra le persone più vicine, faticava a capire una scelta così scomoda.

Il perché della chiamata a portare aiuto dove e quando serve ? e non dove e quando è più comodo ? si chiama fede. «Credo di essere stata uno strumento: ho avuto la “fortuna” di salvarmi e mi sono sentita chiamata a mettermi a disposizione», dice Annalisa Fioretti, 39 anni, medico pneumologo e alpinista. «Abbiamo una storia scritta, Dio è l’artista che dipinge il nostro quadro. Possiamo scegliere di non impegnarci, di scappare, di restare nel mare quieto della nostra indifferenza, oppure possiamo decidere di esserci, di lottare, di andare oltre le difficoltà».

 

LA VALANGA, I FERITI E I MORTI

Il 25 aprile dello scorso anno un terremoto di magnitudo 7,8 della scala Richter squassa il Nepal uccidendo più di 8 mila persone. Annalisa si trova al campo base dell’Everest assieme ad altri 1.500 alpinisti: una valanga si stacca dal monte Pumori e si abbatte sulle tende uccidendo, fra impatto e conseguenze dei traumi, 70 persone. «Ho sentito le scosse, ci siamo rifugiati nella mia tenda che, per fortuna, era riparata dai seracchi del ghiacciaio, così ci siamo salvati». Sono investiti da un’enorme nube di neve e sabbia, i secondi sembrano ore. «Poi è sceso un silenzio mortale», ricorda l’alpinista che, assieme ai compagni, avrebbe dovuto salire il Lhotse (8.516 metri, la quarta montagna più alta del mondo). «Appena ho realizzato che stavo bene, il primo pensiero è stato cercare di capire cosa fare. Uscendo dalla tenda ho visto uno sherpa con il bacino rotto, tutto insanguinato, e un altro incastrato in un telo, così ho iniziato a redermi conto della tragedia», racconta. «Non ho fatto un pianto liberatorio, mi sono attivata: l’esperienza in pronto soccorso mi ha dato la capacità di reagire».

Alla tenda medica è il caos. Annalisa e un dottore francese prendono in mano la situazione. Ma tanti sono sotto shock e non riescono a a collaborare. «I miei compagni, ad esempio, sono rimasti impressionati dalla carneficina e continuavano a verificare di avere tutte le loro cose. Io non avevo paura perché, in qualche modo, ho come sentito che ne sarei uscita e che avrei “portato a casa” altra gente».

 

CURARE CHI SI PUÒ SALVARE

Sono ore drammatiche. Il primo elicottero raggiunge la zona solo il giorno dopo. «Ho dovuto decidere a chi prestare le cure e a chi no. Mi chiedevo: “Chi sono io per valutare chi passerà la notte e chi non ce la farà?”. Mi sentivo piccola davanti al dramma, ma ero chiamata a scegliere. Ci sono attimi in cui puoi guardare in faccia la morte e farle una pernacchia, e altri in cui puoi solo piegare la testa e accettare ciò che la vita ti pone davanti».

Tornati nella capitale, a Kathmandu, i compagni della spedizione volano subito in Italia. «C’erano ancora scosse e la Farnesina facilitava i rientri. Due sono partiti la sera stessa, un altro poco dopo e, una volta arrivato a casa, ha continuato a scrivermi: “Pensa ai figli, torna”. Io ho scelto di restare, in libertà: stavo bene e sentivo che un medico poteva fare la differenza».

I giorni seguenti sono spesi in tutto e per tutto nel darsi da fare; ed è solo nei mesi successivi che l’esperienza, tanto intensa quanto traumatica, presenta il conto. «A lungo ho sognato un coreano del campo base. Aveva il cranio sfondato e non avevo potuto far altro che dargli un anti-dolorifico. Nei sogni “veniva a trovarmi” senza dire una parola, come a chiedermi:“Perché io no?”. Mi sono sentita in colpa fino a quando un amico mi ha fatto notare che a tanti altri avevamo invece salvato la vita. E, ancor prima, ricordandomi quanto io stessa dovessi ringraziare il Cielo per essere sopravvissuta al terremoto».

Offertasi come volontaria, il ministero della Salute destina Annalisa ad alcuni villaggi induisti nella foresta, a 150 chilometri dalla capitale, dove nessuna organizzazione umanitaria è ancora arrivata. In sei giorni, assieme a un piccolo staff della Roby Piantoni onlus, visita mille persone. Poi si sposta in una zona buddhista. «Usavamo un telone come ambulatorio, camminavamo per i villaggi con i medicinali nello zaino». Settimane faticose, che lasciano un segno indelebile: «Non dimentico chi mi ringraziava con semplicità, giungendo le mani giunte sopra la testa», confida. «Ho scelto di fare il medico proprio per mettermi al servizio e vivere il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso”».

Chi sale le vette dell’Himalaya sa che oltre una certa quota “la cordata non esiste più”: ciascuno deve cavarsela da solo. Per Annalisa l’aiutare il Nepal terremotato è stata un’impresa altrettanto solitaria. Ripartiti i compagni, anche gli affetti più vicini guardano al suo impegno con ? comprensibile ? ambivalenza. «Mio marito Luca e i miei genitori erano preoccupati», dice, «ma io sentivo che il mio posto era là e cercavo di tranquillizzarli. Spero che, quando saranno più grandi, i miei figli vorranno venire con me in un viaggio umanitario».

 

L’IMPEGNO CONTINUA

Una volta rientrata a casa, nel Milanese, decide di farsi portavoce dei bisogni che ha incontrato e lancia il progetto Torvagando: scalare alcune delle torri naturali più belle d’Europa accompagnando così, simbolicamente, l’impresa di sostenere economicamente il percorso di studi di una ventina di studenti nepalesi (vedi box a sinistra). «Investire sull’istruzione per me è un modo di dare gambe e speranza al futuro», commenta. Se le si chiede di cosa ci sia bisogno, Annalisa risponde sicura: soldi, certo. Ma, soprattutto, compagni di cordata.

 

AIUTARE IL NEPAL
TORVAGANDO

Annalisa Fioretti ha dato vita al progetto umanitario-alpinistico Torvagando: scalare venti fra le torri naturali più significative d’Europa per sostenere altrettanti ragazzi nepalesi, dagli 11 ai 18 anni, nel percorso di formazione scolastica (14.500 euro a studente). L’impresa è un modo per tenere alta l’attenzione sulla raccolta fondi. Fra le torri che verranno scalate ci sono il Campanil basso e la Cima grande di Lavaredo, nelle Dolomiti; l’Aguglia della Cala Goloritzé in Sardegna; il Dente del gigante sul Monte Bianco; il monte Auguille in Francia. Punto di arrivo del viaggio alpinistico sarà la salita delle Torri di Trango, in Pakistan. Torvagando comincerà a maggio e si concluderà nel luglio 2017. Il prossimo ottobre Annalisa tornerà invece in Nepal per visitare la popolazione. Per seguire il progetto: www.a8000metrieoltre.blogspot.it.

 

Testo di Laura Bellomi

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