N. 17 - 2017 23 aprile 2017
INSIEME di don Antonio Rizzolo

Vivere la Pasqua ogni giorno, nella gioia e nella misericordia

Il tempo liturgico in cui siamo appena entrati rappresenta tutta la vita cristiana, che non può essere che testimonianza…

Johnny Dotti

Io papà e imprenditore alla scuola di Giuseppe

«Noi genitori facciamo fatica a traghettare i valori nel futuro, ma possiamo imparare dal padre di Gesù». L’esperienza di…

Padre Giuseppe Scattolin

La nostra Pasqua di passione in attesa del Papa

In Egitto la comunità copta si prepara alla visita di Francesco ancora con le lacrime agli occhi per gli attentati islamisti…

Don Giovanni Salatino

In periferia azzardiamo la convivenza

Nel quartiere multietnico di Gratosoglio a Milano, un giovane sacerdote forma i ragazzi alla pace e alla convivenza con altre…

Rue Du Bac - Parigi

La Madonna della Medaglia miracolosa

Prima di Lourdes e La Salette, la Vergine appare in Francia nel 1830 alla novizia Caterina Labouré e le affida la diffusione…

Ite, missa est di Emanuele Fant

Non mettiamoci da soli sul piedistallo

Non ci sono statue recenti di personaggi illustri nelle nostre città. Nemmeno di chi lo meriterebbe. Evitiamo allora di innalzare…

Per una lettura completa...

Johnny Dotti

Io papà e imprenditore alla scuola di Giuseppe

«Noi genitori facciamo fatica a traghettare i valori nel futuro, ma possiamo imparare dal padre di Gesù». L’esperienza di un uomo che sa unire fede, educazione e professione

Dotti e la “famiglia allargata”, con cui vive in una cascina della Bergamasca.

«Uomo di profonda fede e di grande capacità imprenditoriale, Johnny Dotti è una delle pochissime persone in Italia che sa tenere insieme aspetti di solito disgiunti: la fede e la professione, la vita familiare e l’appartenenza a una comunità, la sostenibilità d’impresa e la promozione sociale, la prospettiva globale e il radicamento nei territori, la preghiera e il lavoro». Lo scrivono Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, docenti all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nell’introduzione a un libro di Dotti del 2016, Oratori, generatori di speranza. Da poco è uscito, per San Paolo, un nuovo volume: Giuseppe siamo noi che Dotti, bergamasco, classe 1963, ha scritto insieme con don Mario Aldegani, religioso della Congregazione dei Giuseppini del Murialdo, insegnante ed educatore. Complimenti impegnativi, no? «Mah, sa: gli amici tendono sempre a esagerare…».

Comincia così, con una simpatica battuta, l’intervista con Johnny Dotti, che si rivelerà particolarmente piacevole. Non solo per l’empatia che l’interlocutore sa creare, ma anche per il luogo dove si svolge: la casa, immersa nel verde, dove lui e la moglie Monica vivono, a una ventina di chilometri da Bergamo, è una vecchia cascina ristrutturata che anticamente fungeva da romitaggio per monaci. Hanno quattro figli: Elia, 12 anni, Noel, 17 anni (in affido), Marta, 19 anni, e Mirko, 23 anni (in affido).

Con voi vivono anche altre tre famiglie. Perché?

«La nostra è un’esperienza di vita comune che compie trent’anni esatti il 25 aprile e che ha visto, nel tempo, alternarsi le famiglie della casa, molto diverse fra loro per provenienza sociale e culturale. Tutte, però, accomunate da uno stile di vita che si ispira a quattro parole fondamentali: terra, essenzialità, ospitalità e preghiera. Le famiglie vivono in alcuni ambienti comuni, mangiano insieme la sera, ma ciascuna ha uno spazio suo. Dal punto di vista economico, si cerca di aiutarsi reciprocamente. Per noi vivere la quotidianità, come è stato per Maria e Giuseppe a Nazaret, significa “attraversare” la proprietà privata cercando di non farla diventare un possesso esclusivo. Qualcuno ci dice che siamo troppo “comunisti”; in realtà proviamo, nel nostro piccolo, a fare quello che c’è scritto negli Atti degli apostoli».

Siete un’associazione?

«No, anche se, nel tempo, abbiamo costituito una piccola cooperativa. Qui da noi l’“istituzione” è costituita dalle famiglie in quanto tali, e l’ospitalità per noi non è un servizio sociale, ma uno stile di vita. Come facevano i cristiani nei primi secoli, che avevano sempre un letto a disposizione per altri. Lungo trent’anni di storia, da questa casa sono passati, per periodi più o meno lunghi, 150-200 ospiti: persone con vario genere di difficoltà».

Tutti cattolici?

«No. Abbiamo tanti amici preti e, a volte, capita che si sia celebrata una Messa da noi, anche se preferiamo vivere la normale vita della parrocchia. Ma qui, ad esempio, abbiamo una coppia, Sara ed Eugenio: persone venute da atee, anche se profondamente religiose. Hanno vissuto da conviventi per un periodo, poi si sono sposate dopo la nascita della bambina e stanno facendo un loro percorso di fede. Tra noi c’è anche Danilo, che segue la spiritualità buddhista, ma manda i figli a catechismo. Inoltre di qui sono passati vari musulmani. Tra gli spazi comuni della casa, ce n’è uno – non consacrato – per la meditazione, a disposizione per chi è cristiano ma anche per altri. E non è sincretismo, lo dico da cattolico, bensì rispetto delle scelte di ciascuno. La vita è fatta anche di invisibile e l’invisibile ha i suoi linguaggi, spazi e tempi».

Perché una persona dinamica come Dotti ha scelto di occuparsi di un personaggio, Giuseppe, che nel Vangelo appare silenzioso, discreto, quasi marginale?

«Giuseppe è un “trans-millenario”, proprio come noi. Anche lui veniva da una grande famiglia nobile, quella di Davide, completamente decaduta. Lo stesso è per l’Occidente, oggi: grande tradizione, ma enorme difficoltà a traghettare i valori nel futuro. Se passiamo in rassegna i verbi con i quali è raccontato nel Vangelo di Matteo (è stata l’intuizione, geniale, di don Mario), troviamo: sognare, dare il nome, alzarsi, andare, tornare, prendere con sé: sono i verbi dell’educare. Li ho trovati bellissimi».

Cosa dice Giuseppe ai papà di oggi, spesso in crisi? Come si recupera l’autorevolezza senza cadere nell’autoritarismo?

«Occorre riconoscere che l’autorità diventa viva solo dentro una relazione di reciprocità: questo non vuol dire fare gli amiconi. Dobbiamo poi ricordare che abbiamo un rapporto di figliolanza ulteriore, con Dio. Il che non significa obbligare i figli a percorrere per forza le stesse strade, cammino di fede incluso».

Cosa cambierebbe tra lei e sua moglie se non ci fosse la fede?

«Semplicemente credo che non saremmo più sposati. Io e Monica per molti aspetti siamo agli opposti. È stata la fede che ci ha tenuto insieme e ci ha fatto superare tanti momenti difficili. E questo solo perché ci riconosciamo dentro qualcosa che va oltre di noi, altrimenti i nostri limiti ci avrebbero fatalmente allontanato. Insomma, per noi la fede è stata ed è una barca che ci aiuta a superare tanti fiumi. Comunque, quando arriva Monica, lo chieda anche a lei (per inciso: la risposta è stata la medesima)».

Nazareth è sinonimo di umiltà, quotidianità. Non è tempo, dopo una pastorale forse troppo legata ai “grandi eventi”, di riscoprire la dimensione della vita feriale?

«In effetti, spesso la vita ecclesiale è una Domenica della palme continua (per di più senza l’asino, ma con la Mercedes…). Trovo che esista uno scollamento totale tra la liturgia della domenica e le liturgie del quotidiano. Ma se tu la gioia del cristiano non ce l’hai anche nei giorni feriali, la fede rischia di essere qualcosa che ti “pompa” una volta ogni tanto, ma l’effetto – quasi come una droga – finisce presto. E si ripiomba nel grigiore».

A Nazareth Gesù viene avviato alla conoscenza delle «cose di Dio». È difficile oggi la trasmissione della fede: si parla addirittura di «prima generazione incredula». I preti sono sempre meno e gli oratori non hanno più l’appeal di un tempo. E dunque?

«La disgrazia di avere meno preti può essere una grazia, così come accaduto per Giuseppe, che ha saputo trasformare in positivo la sorpresa di aver trovato Maria misteriosamente incinta. Quanto agli oratori: non si tratta di ristrutturare, ma di rigenerare. Non basta mettere a posto gli edifici, occorre pensare al nuovo. Gli oratori sono stati un luogo attraverso il quale il popolo ha avvicinato il teatro, il cinema, lo sport… Ma oggi c’è bisogno di un ulteriore slancio verso il futuro; i modelli del passato, pur validi, non bastano più. Qualche esempio nuovo e interessante in corso c’è: ad esempio, comunità di vita che preparano all’uscita dalla famiglia, dove i ragazzi stanno insieme per qualche mese, facendosi il bucato e preparandosi da mangiare da soli, in una parola mettendosi alla prova. Ma, su questo, torni a trovarmi a fine anno: ci saranno cose interessanti da raccontare».

Testo di Gerolamo Fazzini - Foto di Fabrizio Annibali
  

IL PROFILO. UNA VITA SENZA RISPARMIARSI

Figlio di un emigrante, Johnny Dotti ha cominciato a occuparsi degli altri quando aveva 13 anni e non si è più fermato

«Porto questo strano nome perché mio papà era un emigrante australiano, rientrato in Italia a inizio anni Sessanta». L’autoritratto di Johnny Dotti parte da qui, dai suoi capelli rossi e «un’identità un po’ borderline», come la definisce l’interessato. «Sono cresciuto a pane, don Mazzolari e don Milani. Mi ricordo della prima raccolta fondi fatta nel ’76 per i terremotati del Friuli: avevo 13 anni, tirammo su 20 milioni di lire e li portammo fisicamente a Gemona col treno».

Cominciato il liceo, al terzo anno Johnny lo lascia per andare a fare il volontario in un istituto per minori a Endine Gaiano (Bergamo), quindi a vivere per lunghi periodi, nel corso del 1981, con i terremotati in Irpinia. Segue l’esperienza come obiettore di coscienza (due anni con la comunità terapeutica Cascina Verde a Milano), al termine della quale decide di riprendere gli studi. Diplomatosi all’istituto magistrale, s’iscrive a Pedagogia: alcuni anni dopo, mentre lavora, conseguirà la laurea. Nel 1983 fonda, con altri, l’associazione Fuori le mura e poco dopo entra a far parte della cooperativa sociale Servire (nata dall’esperienza della Caritas bergamasca). Nel 1984 il fidanzamento con Monica, che sposerà di lì a qualche anno.

Dotti comincia, poi, ad avvicinarsi al mondo delle cooperative sociali, nel quale si coinvolgerà accrescendo via via la sua responsabilità e occupandosi di comunità e servizi per disabili, cooperative di inserimento lavorativo e recupero dei patrimoni immobiliari degli istituti religiosi. S’impegna così a diffondere concretamente il tema dell’impresa sociale nel Sud Italia e in Europa. L’ultima avventura si chiama Welfare Italia: una rete di poliambulatori (con servizi dal dentista allo psichiatra…), presente in varie città d’Italia, che prevede forme mutualistiche e costi sociali, a portata anche dei meno abbienti.

Testo di Gerolamo Fazzini

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