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Il presentatore di Affari tuoiha trascorso i giorni di festa con i poveri. Non voleva pubblicità, per lui il volontariato è un «lavoro a fari spenti». Noi però, siamo andati con lui

 

Flavio Insinna e il suo Natale con i poveri

 Foto di Giancarlo Giuliani.

«Non solo a Natale, ma sempre, tutto l’anno». Per Flavio Insinna l’attenzione ai cosiddetti ultimi dovrebbe far parte dello stile di vita, costituire la normalità e non l’eccezionalità. Si schermisce: non vorrebbe essere intervistato su questi argomenti né mettere “in mostra” la sua fede, che custodisce in modo geloso e personale. Si convince solo quando gli dico che la sua è una testimonianza, e che a parlare sono soprattutto i gesti, anche quelli nascosti che lui vuole far restare privatissimi.

Nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, il giorno di Natale, l’attore e conduttore televisivo gira fra i tavoli a servire i poveri con fumanti piatti di lasagne, tra una battuta e l’altra. «Si respira un clima disteso, di familiarità, fra chi serve e chi è servito», racconta. Qualcuno gli chiede un autografo, altri una foto ricordo; lui sorride, abbraccia, perché vivere il 25 dicembre partecipando al tradizionale pranzo organizzato con la Comunità di Sant’Egidio significa «entrare nella vita vera».

«Da qualche anno Flavio si è fatto “contagiare” dalla nostra esperienza», riferisce Michele Scarpulla, fisioterapista e volontario della Comunità, che ha stretto amicizia con lui già da tempo. E ormai per l’attore romano, 48 anni, il pranzo di Natale a Santa Maria in Trastevere è diventato una sorta di tradizione, mentre è la seconda volta (la prima nel 2011) che ha deciso di trascorrere la giornata di Santo Stefano nel carcere di Regina Coeli, condividendo la tavola con oltre un centinaio di detenuti, circa la decima parte di quelli presenti nello storico penitenziario della capitale a due passi dal Tevere. «Oh, ma quello è Insinna! Lo vado a salutare», dice un agente di polizia penitenziaria. E i reclusi, anche i tanti stranieri e rom, lo riconoscono e fanno quasi a gara per farsi fotografare vicino a lui.

«Non essere sposato e non avere figli è un grande svantaggio, ma in queste circostanze diventa un vantaggio: mi dà la possibilità di essere presente a questi appuntamenti», dice  commosso, mentre decine di detenuti fanno la fila per salutarlo, ringraziarlo, stringergli la mano, abbracciarlo. Dopo il pranzo, infatti, Flavio si lancia in un’ora di “spettacolo” con due suoi amici, l’intrattenitore e cantante Cristian Medda e il mago illusionista Daniele Lepantini, in arte Lupis. «Non è Houdini: l’unica magia che non può fare è quella di far sparire qualcuno», scherza Insinna.

Non finisce mai di fare gli auguri, di ringraziare tutto il personale, i volontari e i detenuti stessi «per l’accoglienza». E nota: «Non è per niente facile né scontato creare un clima di allegria ed entrare in empatia con questo pubblico», commenta dopo l’esibizione. «Bisogna entrare in questi luoghi del dolore con entusiasmo ma soprattutto in maniera sincera. Chi ascolta sente l’onestà, avverte l’autenticità di chi parla: allora tutto diventa bellissimo. Ed è questa la versione più importante di quello che facciamo, in grado di nobilitare il nostro lavoro: quando porti un sorriso a chi soffre, a chi si sente dimenticato e che invece in quel momento si sente accolto e benvoluto».

Un medico del reparto oncologico del Policlinico Gemelli, confida Insinna, gli ha riferito che «una risata davanti allo schermo fa effetto quasi quanto la chemioterapia». E ricorda suo padre Salvatore, di origine siciliana, scomparso a 83 anni nel 2011: ha ripercorso il loro rapporto nell’autobiografia Neanche con un morso all’orecchio, edita da Mondadori due anni fa. «Era un medico con tutte le lettere maiuscole, dalla m alla o: curava i tossicodipendenti, le persone disabili e malate di mente. Mi ha trasmesso i valori più importanti; non ho seguito le sue orme professionali ma cerco di far vivere quella libertà che è partecipazione, come diceva Giorgio Gaber, nel lavoro che faccio». Per parlare della sua fede, Flavio preferisce raccontare fatti e condividere riflessioni intime, profonde: «Non possiamo vivere in una piccola isola, senza accettare di guardare il dolore negli occhi e la vita vera delle persone che sono sotto lo stesso cielo. Chi non accetta di soffrire non entra nel senso profondo dell’esistenza, anche di questa festa del Natale».

Non vuole parlare di quello che fa per gli altri: «Mi piace che la sinistra non sappia quello che fa la destra, facendo quello che posso a fari spenti», taglia corto. Un impegno che condivide anche con la sorella Valentina e con sua madre: «Da piccoli ci ammoniva: “Non voglio sentire la parola mio. Quello che c’è è di tutti”. E poi mi invitava sempre a girarmi, “perché c’è sempre uno che zoppica”. I miei genitori mi hanno educato a una vita di partecipazione, di condivisione. Con queste premesse, viene tutto spontaneo, è tutto normale: ti spendi per i bambini africani e per gli alluvionati in Sardegna, per i malati di cancro e le vittime dei terremoti. La vita è così: dare. È bizzarro chi non lo fa». E papa Francesco? «Mi entusiasmo ogni volta che dà una spallata alle cose polverose della Chiesa. Ci trascina verso i poveri e accende la voglia di spendersi. Almeno, per me è così».

 

Testo di Laura Badaracchi

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