SPIRITO SANTO, RENDICI TESTIMONI
Schema per la Veglia di preghiera in comunione con i martiri contemporanei. (scarica la versione .pdf)
Credere n. 20 - 17/05/2015
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Dio provvederà
La testimonianza
Mio zio Oscar ci ha insegnato la libertà
Parla Cecilia Romero, la nipote del vescovo martire che vive a Viterbo. «Con le sue omelie ha rivoluzionato il sentire del popolo salvadoregno. Essere poveri non significa una condanna al silenzio».
In foto:Cecilia Romero, la nipote del vescovo martire che vive a Viterbo
«Era un giorno di giugno del 1979. Un gruppo di militari sfondò la porta ed entrò in casa mia trovando me, mia sorella e mia madre. I miei fratelli e mio padre erano fuori. Subito chiesero di mostrargli i documenti e quando lessero “Romero” si insospettirono. “Ah, quindi siete anche voi Romero! Siete parenti?”, ci urlò uno dei soldati. “Sì, ma del presidente”».
Comincia con il racconto di questo episodio drammatico e della freddezza della madre che rimase calma e sfruttò l’omonimia tra monsignor Oscar Arnulfo e Carlos Humberto, presidente del Salvador in quel periodo, l’incontro con Cecilia Romero, figlia di un cugino molto vicino all’arcivescovo di El Salvador ucciso dagli squadroni della morte il 24 marzo del 1980. «Se i soldati avessero capito che eravamo parenti diretti, quella “visita” ci avrebbe consegnato tutti all’arresto immediato o alla morte». Gli occhi si arrossano e bagnano un bel viso centroamericano senza rughe che riesce a celare i segni della sofferenza. Dietro quel volto c’è tutta la densa storia di un popolo sconvolto da un ventennio di terrore innescato nel 1972 dall’arrivo al potere del colonnello Molina e continuato tra colpi di Stato, stragi, guerra civile fino al 1992.
Ma c’è anche la storia di una famiglia costretta a fingere di non avere legami con quel vescovo divenuto un simbolo, di non essere parte di un’eredità spirituale oltre che familiare, obbligata addirittura a mentire su un cognome così complesso. «Da un certo punto in poi i contatti della mia famiglia con Monseñor si interruppero. Solo mio padre li mantenne, ma in segreto. Lo stesso Oscar Arnulfo ci fece capire che era meglio sospendere ogni forma di relazione e noi ci riducemmo ad ascoltare le sue omelie alla radio, non potendo neanche andare in cattedrale». Alcuni membri della famiglia di Oscar Arnulfo Romero, in particolare il fratello minore Gaspar (che era anche il suo autista) e il padre di Cecilia, che continuavano in ogni modo a incontrarlo, furono minacciati di morte e ricevettero lettere minatorie in cui si facevano riferimenti chiari a figli, mogli, fratelli o parenti. Fingere di non amare Romero non fu solo un metodo per mettere al sicuro i propri cari, divenne uno stato permanente di nascondimento, che ha lasciato segni profondi nella coscienza di Cecilia e di un intero popolo: «Il pericolo continuò anche dopo la morte di monseñor. Fino agli anni ’90 era rischiosissimo semplicemente parlare di Romero. La visita di Giovanni Paolo II e la sua preghiera davanti alla tomba, nel 1996, cominciarono a cambiare le cose. Ma ormai avevamo interiorizzato la paura e quando ripenso a quei tempi, oltre che per la morte di mio zio (lo chiama così affettuosamente, ndr) piango perché sento di essergli stata lontana».
Il racconto sfiora il senso di colpa, svela la fatica a rielaborare una sensazione quasi di tradimento verso un uomo in pericolo, verso un vescovo, verso uno «zio».
Solo di recente Cecilia e la sua famiglia hanno realizzato un processo di liberazione riuscendo a recuperare appieno un’eredità da una parte preziosa, dall’altra esigente. «Monsignor Romero», ora sorride Cecilia, «ha rivoluzionato nel profondo il sentire del popolo. Ho cominciato a sentirmi libera ascoltando e riascoltando le sue bellissime omelie. Tutti noi eravamo abituati al silenzio, eravamo un popolo timido, chiuso. Io stessa sono cresciuta in quegli anni abituandomi al silenzio, all’università stavo zitta. Le omelie sono state, oltre che un meraviglioso strumento pastorale, una chiamata all’apertura, di tutti, a partire dagli ultimi. Le sue parole hanno innescato una vera e propria presa di coscienza: essere povero non significa non poter parlare. Gli umili, come dimostrano ad esempio i suoi funerali, lo compresero bene».
Il giorno delle esequie, giunsero nella capitale circa un milione di partecipanti: un quarto della popolazione di tutto il Salvador di allora. E neanche lo spaventoso scoppio di una bomba, cui fece seguito una sparatoria (i dati ufficiali parlarono di una cinquantina di morti, in realtà si comprese da subito che dovettero essere molti di più, ndr), riuscì a frenare l’affetto di tutto il Paese.
«Nel 1980, finivo i miei studi da liceale e, da noi, la consegna dei diplomi la fa il vescovo. Non vedevo l’ora che arrivasse ottobre, mese in cui era fissata la cerimonia, per ricevere dalle mani di mio zio il diploma e festeggiare con lui e la mia famiglia». Quel momento d’ottobre, così particolare, non si realizzò mai. Cecilia ricevette il diploma dalle mani del successore di monsignor Romero, Arturo Rivera y Damas, tra le lacrime sue e della famiglia. Non di gioia.
Ora, finalmente, quel momento di intimità tanto attesa, per liberare la felicità e tornare a sorridere nel profondo, sta per avverarsi. «Torno in patria», mostra raggiante i biglietti destinazione San Salvador per lei, suo marito, i suoi due figli tutti ora stabilitisi a Viterbo, «per la beatificazione di Monseñor». La festa per il «Santo delle Americhe». E per uno zio finalmente ritrovato.
Testo di Luca Attanasio foto di Stefano Dal Pozzolo/Contrasto