N. 23 8 settembre 2013
Ritratto

LA FEDE DEI POVERI TRASFORMA LE PERIFERIE

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Ritratto

LA FEDE DEI POVERI TRASFORMA LE PERIFERIE

Parroco nelle “villas” degradate della capitale argentina, minacciato di morte dai narcotrafficanti, da anni si batte, con il suo popolo, per ridare dignità agli ultimi. «Ma non guardateci come meri attivisti sociali».

Al Meeting di Rimini, poche settimane fa, quello di padre José Di Paola è stato uno degli interventi più applauditi. Ben 3.500 persone hanno seguito il racconto di padre “Pepe”, com’è popolarmente chiamato nel suo ambiente – le villas miserias alla periferia di Buenos Aires – questo prete argentino di origini italiane. Uno stuolo di giornalisti ha assediato il sacerdote dal volto di ragazzo, diventato di colpo un personaggio per il suo coraggioso impegno (che l’ha portato a denunciare i narcotrafficanti ricevendo minacce di morte) e per la sua amicizia con papa Bergoglio, che data dal 1996. Un’amicizia rinnovatasi nelle due ore e mezza di colloquio concesse dal Santo Padre al cura de la villa, il prete di periferia, il 22 agosto. Credere l’ha incontrato.

- Padre Pepe, come è nata la sua vocazione al sacerdozio?

«Nella mia vita spirituale di adolescente c’è un momento-chiave: un campeggio in montagna, durante il quale, per la prima volta, colpito dall’esempio del mio prete, padre Raul Miguel, pensai: anch’io potrei diventare come lui. Un giorno ci invitò a vedere il film di Zeffirelli Fratello sole, sorella luna. Rimasi molto colpito dall’incontro con Dio che Francesco viveva nella natura (io lo stavo sperimentando durante il campeggio), ma soprattutto la sua dedizione totale a Dio. Mi sono appassionato alla figura di Francesco e ho letto vari libri su di lui prima di entrare in seminario: mi ha segnato molto nella fase in cui decisi di farmi prete».

 - Che posto ha la preghiera nella sua vita?

«Molte volte si guarda a noi curas villeros come a semplici attivisti sociali. Questo ha sempre disturbato molto l’allora vescovo Bergoglio, perché egli sapeva che noi, in realtà, viviamo un incontro religioso permanente. La nostra gente ci chiede cose che altrove la gente non chiede: novene, processioni, sacramenti per i figli… Già semplicemente vivendo fianco a fianco della gente, così imbevuta di religiosità, si vive una continua relazione con Dio. Aggiungo che per me il lavoro sociale non parte da un’ideologia, ma dalla spiritualità. Io cerco di vivere in chiave di fede tutto quanto sperimentiamo nelle periferie. Non molto tempo fa hanno ammazzato dei ragazzi del gruppo giovanile. Ci scontriamo costantemente con situazioni di questo genere, ragion per cui è necessario confidare con forza in Dio. Bergoglio stesso, da arcivescovo, interpellava costantemente noi preti sulla qualità della vita spirituale».

- I poveri l’hanno “convertita”...

«Ho ricevuto e ricevo moltissimo dai poveri, quanto a religiosità, impegno, capacità di condivisione. Il povero è “naturalmente” aperto a Dio; chi ha potere, fama e soldi sente meno il bisogno di Dio».

- Ho letto di giovani venuti a lavorare  con voi nelle “villas”, poi diventati preti.

«Sì, è così. Prendiamo Nicolas Lancellotti, ad esempio: un giovane che studiava da insegnante di educazione fisica e si impegnava molto nel lavoro sociale. A un certo punto, è entrato in seminario: da un anno e mezzo è prete a Bajo Flores. Abbiamo quattro giovani cresciuti nella villa che stanno pensando al sacerdozio: li stiamo accompagnando con una formazione ad hoc nel quartiere, prima dell’ingresso in seminario».

 

- Spesso si pensa alle periferie come un mero concentrato di disagio sociale…

«Non è così. Penso a Matute. Era un leader negativo, guidava una banda giovanile. Saputo che non aveva ancora ricevuto la Cresima, mi avvicinai a lui: entrammo in confidenza, finché non fu lui a chiedermi di diventare suo padrino. Ricevuta la Confermazione, è diventato un capo in positivo, capace di attrarre i ragazzi e trasmettere valori positivi. Oggi ha una bella famiglia e lavora in un centro sociale».

- Lei, dopo sette anni, ha lasciato il sacerdozio, per poi tornare a esercitare il ministero. Come mai?

«Non stavo vivendo una crisi di fede, ma di tipo vocazionale. Sognavo di fare una famiglia mia, di lavorare… Non avevo nulla contro la Chiesa! In realtà, mi sono accorto che non avevo mai smesso di essere prete. È in quel momento delicato che ho incontrato il vescovo Bergoglio. Lui mi ha seguito da vicino. Molte cose capitatemi nella vita sacerdotale (come le minacce di morte) ho potuto superarle grazie alla sicurezza acquisita dopo quella crisi».

- Com’è il suo rapporto con la teologia della liberazione?

«La “teologia del popolo”, tipicamente argentina, parte dall’esperienza dell’incontro con il povero, non tanto da un’analisi sociologica o da una ricetta ideologica. Valorizza la teologia della liberazione in alcuni elementi, ma non in tutti. Io sono convinto che è la fede del popolo l’unica forza genuina di cambiamento. Chi teorizza che la religione è oppio dei popoli dovrebbe venire da noi, per constatare come il potere di trasformazione del popolo ha generato un progresso concreto».

- In Argentina è uscito un libro su di lei, in Francia un film che allude alla sua vicenda. Non teme di diventare un “personaggio”?

«Quando la giornalista Silvina Premat mi sottopose l’idea del libro Pepe, el cura de la villa (Pepe, il parroco di periferia), ero indeciso. Consultatomi con Bergoglio,  decisi di accettare: in quella fase, noi preti ci trovavamo nell’occhio del ciclone a motivo dello scandalo pedofilia e mi sembrava giusto far passare un messaggio in controtendenza. Perciò ho pensato che il racconto della mia esperienza potesse risultare interessante». 

Di Gerolamo Fazzini

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