Credere n. 24 - 15/06/2014
Il coraggio della preghiera per arrivare alla pace
Cari amici lettori, con papa Francesco fin dall’inizio abbiamo vissuto eventi straordinari e sorprendenti...
Quando un fratello chiede rifugio
Intere famiglie scappate dalla Siria e giovanissimi eritrei in cerca di futuro: la Comunità di Sant’Egidio in prima linea…
Pelle fragile, fede forte
Claudio Mantovani è affetto da epidermolisi bollosa, la malattia rara dei “bambini farfallaâ€. Ma lui è diventato grande…
Talent? No grazie. Canto per Dio, come papÃ
Ha raccolto l’eredità del padre Claudio. «All’inizioero titubante, ancora oggi non mi ritengo un cristiano maturo,…
Il viaggio dell'incontro
Quale bilancio del pellegrinaggio di papa Francesco in Terra Santa e degli storici gesti di amicizia con ortodossi, ebrei…
Carlo Nesti: se i mondiali nascondono i poveri
...è peggio vedere un Paese diviso a metà , fra i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, oppure nascondere…
Paolo Naso
Il viaggio dell'incontro
Quale bilancio del pellegrinaggio di papa Francesco in Terra Santa e degli storici gesti di amicizia con ortodossi, ebrei e musulmani? Ne parliamo con Paolo Naso, professore alla Sapienza di Roma ed esperto di ecumenismo e rapporti tra le religioni.
Â
L’incontro tra papa Francesco e il patriarca ecumenico Bartolomeo, “primo tra pari†dei patriarchi ortodossi. Foto di Abir Sultan/EPA/ANSA.
Un viaggio «nella direzione dell’incontro» l’aveva definito il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin prima della partenza. E così è stato: un incontro con due popoli, tre fedi, decine di Chiese. Un incontro con secoli di storia e di vicende politiche nutrite dal sangue e dalle lacrime, dalle speranze e dai sogni. Sull’impatto che la visita di papa Francesco ha avuto nel dialogo tra le religioni parliamo con Paolo Naso, docente di Scienza politica alla Sapienza di Roma, dove coordina il Master in Religioni e mediazione culturale. Già direttore del mensile Confronti e della rubrica Protestantesimo (su Raidue), attualmente segue il Servizio studi della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia.
Come legge il viaggio di Francesco in Terra Santa?
«È stato un viaggio lungo una via stretta, molto stretta anche per un Papa che portando il nome di Francesco si è presentato umile, desideroso di capire, disponibile all’ascolto. La via era stretta perché ogni gesto di papa Francesco aveva un precedente storico, e talvolta più di uno: l’abbraccio con il patriarca ecumenico del mondo ortodosso, la visita alla Spianata delle moschee, il pellegrinaggio al Muro occidentale, il raccoglimento e l’omaggio a Yad Vashem (il memoriale della Shoah, ndr). Ognuna di queste tappe aveva in sé significati molto profondi che papa Bergoglio è riuscito a reinterpretare e in un certo senso a rilanciare ai suoi interlocutori: una nuova stagione ecumenica è possibile, il dialogo tra le grandi fedi è una ricchezza e non un cedimento, dopo le difficoltà e persino le tensioni degli ultimi anni il rapporto con l’ebraismo può crescere sul piano teologico e spirituale. E la pace è possibile, nonostante le durezze di decenni di conflitto. Insomma un viaggio difficile quanto necessario che ha reso bene la complessità di una situazione che richiede determinazione, pazienza, umiltà : doti che a papa Bergoglio non sembrano mancare».
Nel nome dell’incontro tra Paolo VI e il patriarca Atenagora, il viaggio ha avuto notevoli risvolti politici. Rispetto al mondo ortodosso cosa ha significato?
«Indubbiamente il viaggio ha rafforzato una relazione di fraternità che già esisteva e che potrebbe fare da viatico a una nuova primavera ecumenica. Ma, di nuovo, papa Francesco è costretto a camminare su una via molto stretta: da una parte, infatti, vi è un dovere di fraternità e solidarietà ecumenica nelle aree del mondo in cui i cristiani, spesso proprio ortodossi, sono perseguitati; dall’altra restano aperti non pochi problemi nel rapporto con l’ortodossia europea, prima tra tutte quella russa. Anche in questa circostanza Francesco si è mosso con umiltà , senza teatralizzare i gesti di amicizia e di fraternità , consapevole che l’agenda delle relazioni con l’ortodossia è in gran parte da riscrivere. La nuova primavera ecumenica che in molti auspicano e di cui forse si vede qualche segnale ha bisogno di una semina e di una cura molto attenta. Bergoglio si è mostrato pronto a fare la sua parte ed è fiducioso che, insieme a lui, siano pronti anche altri».
L’ebraismo ha diversi volti. Il viaggio è stato anticipato dall’intervista a Civiltà Cattolica del rabbino argentino Abraham Skorka, amico entusiasta di Francesco. Ma per esempio il rabbino di Roma, Riccardo Di Segni, ha parlato di confusione tra elemento religioso e politico. A suo parere, rispetto all’ebraismo il viaggio aiuterà il dialogo? E su quali punti?
«Distinguerei tra due piani che invece, purtroppo, tendono a confondersi costantemente. Uno è quello della coscienza teologica nei riguardi dell’ebraismo, e su questo piano mi pare che i gesti e le parole del Papa abbiano raccolto un ampio consenso. È vero che il Papa non ha inteso avvicinarsi ai nodi teologici che in tempi ancora recenti – se vogliamo una data simbolica potrebbe essere il 2000, l’anno della pubblicazione della Dominus Iesus sull’unicità della salvezza in Cristo – hanno travagliato le relazioni cattoliche con i “fratelli maggioriâ€. Ma in più occasioni ha espresso la sua vicinanza alla tradizione e alla comunità ebraica nel suo complesso. Sul piano politico, invece, alcune personalità ebraiche hanno criticato il Papa per le sue parole in prossimità del “muro†o per i suoi accenti apparsi troppo sbilanciati nel sostegno alla formula “due popoli due Statiâ€. Non a caso il rabbino Skorka conosce e valuta il “pastore†Bergoglio, conosciuto in Argentina, mentre il rabbino Di Segni guarda soprattutto al capo della Chiesa di Roma. Sono due letture nettamente diverse e mi pare difficile che possano conciliarsi a breve. In sintesi, se la via del dialogo “teologico†rimane stretta ma almeno corre in piano, quella di un dialogo più complesso con il mondo ebraico risulta ancora più faticosa perché intralciata da ostacoli di ordine politico. Ma intanto è tracciata, e questo è un grande risultato».
L’attenzione al mondo musulmano e la questione palestinese in che misura sono collegate? E, in questo senso, cosa ha rappresentato il viaggio dal punto di vista religioso?
«Stesso discorso. Sono due temi diversi che impongono due diverse agende che invece vengono fatte coincidere, spesso a scapito del terzo incomodo: la piccola comunità cristiana palestinese, stretta tra la sua specificità confessionale da una parte e la lealtà al progetto nazionale palestinese dall’altra. Il taglio politico che il gran muftì ha voluto dare alla visita alla Spianata delle moschee ha ridimensionato la portata di un incontro ravvicinato con l’islam che avrebbe potuto arricchirsi di importanti contenuti spirituali, teologici e umanitari. Ce ne sarebbe stato un grande bisogno e da questo punto di vista è stata un’occasione sprecata. Importante invece che il Papa abbia assunto e ribadito l’idea dei “due popoli, due Statiâ€, l’unica formula utile a rivitalizzare un processo di pace che da anni langue senza alcun risultato pratico. La retorica su una generica pace a Gerusalemme è spesso stata un alibi per non affrontare i nodi veri di una pace difficile e onerosa per tutti: i palestinesi, gli israeliani, la comunità internazionale».
Testo di Vittoria Prisciandaro