N. 26 - 2018 1 luglio 2018
INSIEME di don Antonio Rizzolo

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Daniele Mencarelli

Al Bambin Gesù si può nascere e rinascere

L’autore del romanzo "La casa degli sguardi", racconta a Credere la sua via d’uscita da una dura crisi esistenziale passata dai corridoi dell’Ospedale Bambino Gesù

Daniele Mencarelli

Nascere, rinascere. All’Ospedale Bambino Gesù di Roma accadono entrambi i miracoli, e non solo ai più piccoli.

Daniele Mencarelli, 44 anni, ce lo aveva già raccontato attraverso una raccolta di poesie di rara bellezza (Bambino Gesù, edito da Nottetempo). Quello che Mencarelli aveva nascosto era la propria, di rinascita. Cosa mai l’ha spinto a raccontarci oggi — sposato e papà di due bambini, con un’affermata carriera letteraria e un lavoro stabile in Rai — gli anni dell’alcolismo e degli psicofarmaci? Eppure, con infinito coraggio e senza compiacimento, li ha messi nero su bianco nel suo primo romanzo (La casa degli sguardi, Mondadori). «Penso che tutti noi, nella vita ordinaria, rischiamo di perdere la misura e la confidenza con il limite», ci spiega. «E io ho sentito il rischio di essermene allontanato».

La storia è quella di Daniele, un ragazzo che vive il prepotente desiderio di voler salvare ogni cosa e che, scoprendosene incapace, imbocca la via della distruzione. Anzi, dell’autodistruzione. Esperienze che altri suoi coetanei vivono come divertimento, per quanto estremo, lo conducono ripetutamente all’ospedale: abuso di stupefacenti, abuso di alcol. «Fino a quando mia madre, un giorno, mi prese per mano e mi condusse sul ponte di Ariccia. “Guarda, mi stai uccidendo un po’ per volta, facciamola finita insieme”, mi ha detto. Lì mi sono reso conto che stavo distruggendo chi avrei voluto proteggere».

Ma che fare? Con l’aiuto dell’amico poeta Davide Rondoni, Mencarelli trova lavoro nella cooperativa che gestisce le pulizie all’interno dell’Ospedale Bambino Gesù. È l’ultima possibilità di riscatto. Eppure la strada è tutt’altro che semplice. Il demone dell’alcol, sempre dietro l’angolo. Le ricadute, continue. «Per me era l’unica reazione possibile al dolore». Perché di dolore, al Bambino Gesù, se ne vede tanto. Quello incosciente dei piccoli e quello cosciente dei loro genitori, i «fantasmi», come li chiamano gli operai.

UN MONDO DI SGUARDI
Gli operai. Ecco qui quelli che, forse, sono i veri eroi del romanzo. Uomini e donne che scrostano bagni e svuotano cestini mentre nessuno li vede. Che si allungano sulle vetrate e lucidano i corridoi con consumata maestria. Che sono chiamati a svolgere i compiti più ingrati. Con la sensibilità del poeta, Mencarelli ci fa percepire quanta epica ci sia anche nel lavoro più nascosto. «Ci fu immediatamente un’onda di affetto verso queste persone», racconta. «Ero cresciuto in una famiglia piccolo-borghese e sono entrato in contatto con un certo tipo di sacrificio, povertà e arretratezza che davvero non conoscevo. Ma non ne faccio mai un’ideologia. Ho reso i miei compagni davvero per come erano. Il primo motore è stato il rispetto, recuperarli nella loro esatta misura».

E poi ci sono gli incontri con gli sguardi degli altri. Quello con un piccolo malato che si affaccia da una finestra e con cui s’instaura un dialogo muto. Quello con i piccoli ammutoliti per sempre, dormienti in una bara candida, o in un lettuccio incrociato in ascensore. Quello con i genitori caricati di una croce immane. Quello con il presidente del Bambino Gesù, caricato di tutti loro. E quello, incredibile, con una suora. Una suora che gioca con un bambino dal volto sfigurato, senza più naso né bocca. Una suora che fissa quel bimbo e gli sorride: «Ma quanto sei bello, che bel bambino sei!». Com’è possibile? Quella suora mente a un innocente? Oppure vede davvero qualcos’altro? Mencarelli racconta ancora con emozione quel momento. «È stato il momento di rivelazione più alta rispetto a tutta la mia vita... Ancora faccio fatica a raccontare la chimica di quell’istante... vedere quella donna fare qualcosa che ancora faccio fatica a spiegare... la sua capacità di trafiggere, di vedere un nucleo oltre... perché ti assicuro che quel bambino era inguardabile. Il mio sbigottimento fu assoluto. Trascorsi tre giorni di “ubriacatura sobria”. E quando ho cominciato a pensare al gesto di quella suora non più come qualcosa di costruito o calcolato, ma come a un agente di amore... ho sentito che aveva la forza di cambiare tutto».

ARRIVA LA SVOLTA
Daniele smette di bere. Al di fuori della finzione romanzesca, continua a raccontarmi, ci è voluto più tempo e l’esperienza durissima di una settimana di trattamento sanitario obbligatorio, ma non saprebbe dire perché ha smesso di bere. È successo, semplicemente. Per miracolo. Miracolo? Sì, uno dei tanti che accadono, continuamente, dentro e fuori il Bambino Gesù. Eppure di Dio non si parla molto, in questo romanzo, se non per chiedergli conto di tutto questo dolore bambino. Di Dio se ne parla poco, eppure c’è.

«Per me questo è un libro di fede», continua Mencarelli, «per come io la intendo da sempre, ossia un dialogo continuo. Un dialogo che è anche porre in questione, ma l’interrogativo lo lanci solo quando riconosci una Presenza dall’altra parte».

E il male profondo della gioventù? Quel desiderio frustrato di voler salvare ogni cosa, ha trovato risposta? «Il “non rimane niente” resta il mio demone che mi aggredisce quotidianamente, al lavoro e in casa. Ma il paradosso del Bambino Gesù è che lì il Nulla si ferma all’entrata. Questo è il miracolo che fa in me il Bambino Gesù, e penso lo faccia ad altri, e lo farà ancora e ancora». Il Bambino Gesù ti ha insegnato a sperare in un Oltre? «Noi cristiani dimentichiamo spesso ciò che forse è la più grande peculiarità della nostra fede. Mentre le altre religioni parlano di un “dopo” slegato da ciò che siamo ora, per i cristiani il rapporto con ciò che siamo qui è sancito in eterno! Noi saremo sempre noi! Questa è la vera novità. Questa è la cosa che mi affascina, mi seduce, mi innamora».

Testo di Paolo Pegoraro - Foto di Stefano Dal Pozzolo/Contrasto

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