N. 31 2014 3 agosto 2014
INSIEME di don Antonio Rizzolo

La fede vera si rende operosa mediante la carità

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Simona Atzori

La mia vita è un vero capolavoro

Nata senza braccia, la giovane artista milanese è ballerina, scrittrice e pittrice di grande talento. Ai lettori di Credere racconta in esclusiva la sua infanzia di bambina “diversa”.

 

UNA PASSIONE INIZIATA DA BAMBINA -  Fin da piccola, Simona ha coltivato la danza. In questa foto la vediamo nella coreografia di apertura della quarta serata del Festival di Sanremo. Foto di Maria Laura Antonelli /AGF

UNA PASSIONE INIZIATA DA BAMBINA -  Fin da piccola, Simona ha coltivato la danza. In questa foto la vediamo nella coreografia di apertura della quarta serata del Festival di Sanremo. Foto di Maria Laura Antonelli /AGF.

Dietro il sorriso e lo sguardo luminoso, una grande sensibilità e un amore per la vita sconfinato. Insieme alla consapevolezza delle ferite e delle difficoltà su cui inciampare per poi rialzarsi. A quarant’anni, compiuti lo scorso 18 giugno, Simona Atzori è una donna che gronda femminilità nella sua danza e nei suoi quadri, nella sintesi esistenziale e spirituale riassunta con candore: «Per me ogni compleanno significa festeggiare la vita che è stata scelta per me immergendomi completamente nell’amore e nel dono di viverla ogni giorno. Perché la vita, così come l’amore, si sceglie proprio quando non è più così scontato averlo».

Custodisce negli occhi la gioia di una bambina consapevole di essere nata senza braccia, che fin da piccolissima ha imparato a cogliere i fiori e a fare tantissime altre cose – praticamente tutte, dal cucinare al guidare, dal truccarsi al pettinarsi – con i piedi.

A trasmetterle questo approccio positivo è stata sua madre Tonina, scomparsa due anni fa alla vigilia di Natale, che le ha trasmesso anche una fede scandita da fatti e gesti concreti: «Ammiravo molto la sua religiosità. Non credo nella fede “della candela”, dell’accenderla e aspettare che succeda qualcosa: bisogna andare incontro alla vita e condividere, donare… Sono cresciuta in questo modo. E penso alla mia fede come a qualcosa da mettere in pratica, sempre», confida con timidezza.

«Ringrazio il Signore non per la vita in generale, ma per avermi disegnata esattamente così. Il mio grazie quotidiano è cercare di rendere questa mia vita un Capolavoro, come Lui ha voluto che fosse», aveva scritto nel 2011 nell’autobiografia Cosa ti manca per essere felice?, pubblicata da Mondadori. E a settembre, lo stesso editore pubblicherà Dopo di te, in cui Simona ripercorre il rapporto con sua madre: «Questo libro è il mio modo di elaborare la perdita trasformandola in qualcosa di positivo, come avrebbe voluto lei», spiega.

«Dalle varie sfaccettature della sofferenza, dal rapporto con la malattia e la morte, ho imparato molto. A nessuno, neppure ai credenti, viene risparmiato il dolore; mia mamma mi ha insegnato a non aver mai paura di affrontare le situazioni, di farsi trafiggere dal dolore e passarci attraverso per uscirne con qualcosa di diverso. Me lo ha insegnato arrivando alla fine con molta serenità, combattendo: voleva arrivare alla morte “viva” e non ha sprecato neanche un secondo. Mi ha aiutato a sentire che ora lei è libera e a capire che la morte divide fisicamente, ma quello che c’è resta e vive».

Sicuramente l’imprinting materno – appoggiato da quello paterno e della sorella Gioia, che vive in Canada con il marito e le ha dato tre nipotini – ha segnato a fuoco la prospettiva esistenziale di Simona: «Sono stata accolta da una famiglia straordinaria, che mi ha inculcato come il fatto di non avere le braccia fosse anche una opportunità: la diversità è l’unica cosa che ci accomuna tutti. Mi aggrappo a quello che ho: prima di tutto al credere fortemente che la vita sia un valore grande, e non sono solo parole. Spesso non ci rendiamo conto di quanto abbiamo, dalla natura a un sorriso. Bisogna tornare ai valori autentici, all’essenza».

Altro atteggiamento chiave? «Non chiedere, ma ringraziare: io lo faccio attraverso la danza, la pittura, gli incontri, la scrittura. Mi esprimo così e dico grazie per la vita, per come mi è stata data: il Signore mi ha disegnata in questo modo; non mi chiedo perché non mi ha dato le braccia, ma sono felice per tutto quello che mi ha dato», dice Simona con semplicità e naturalezza, quasi abbracciata da una cascata di capelli biondi e ondulati.

Sempre in giro in Italia e all’estero per i suoi spettacoli – ne sta preparando uno con Mariacristina Paolini e Beatrice Mazzola, della Simonarte Dance Company, ospiti i ballerini del Teatro alla Scala di Milano Marco Messina e Salvatore Perdichizzi – Simona trova sempre il tempo di dipingere per fissare in qualche modo le emozioni che prova: «Ho iniziato da autodidatta, a quattro anni, con l’acquerello, passando per l’acrilico, il pastello o la matita su carta, l’olio su tela. A volte ho bisogno del colore, a volte del tratto. Attingo alle mie esperienze, ma amo soprattutto i volti, anche in primo piano. Mi piacciono le anime, entrare dentro i loro mondi e nelle emozioni che restano concretamente sulla tela, mentre la danza svanisce e rimane solo il ricordo di quei momenti».

Le tonalità del cielo – «sono innamorata di tutto ciò che è Cielo, ho la sensazione di volare mentre danzo», puntualizza – fanno da sfondo a due intensi ritratti di Giovanni Paolo II. «Il primo, realizzato con pastello su carta, gliel’ho regalato in Aula Nervi nel 1992: con la mia famiglia ero a un’udienza per Vdmfk, associazione internazionale dei pittori che dipingono con la bocca e con il piede. Conoscerlo da vicino è stata un’emozione straordinaria: era un grande Papa e un grande uomo. Ho sentito il suo sguardo su di me quasi da nonno a nipote, ho percepito la sua dolcezza: mi ha dato la benedizione e mi ha accarezzato».

Dopo la sua morte, nell’aprile del 2005, Simona ha dipinto a olio un primo piano molto veritiero di Wojtyla «per continuare il mio dialogo con lui». E in questi giorni ha abbozzato uno schizzo del volto solare di papa Francesco, «nella speranza di poterlo incontrare e regalarglielo. Coltivo anche il desiderio di danzare per lui», ammette. Perché di Bergoglio è entusiasta: «Quando è stato eletto e ho sentito che aveva scelto il nome “Francesco”, ho pensato che fosse un miracolo, una meraviglia straordinaria; per me il santo di Assisi rappresenta il modo più autentico di vivere la fede. E poi con il suo “Buonasera” il Papa si è reso subito vicino: è la spiritualità francescana dell’incontro».

Chiosa: «Quanto è vuoto il cielo di chi è ossessionato da se stesso e non si accorge di quello che c’è intorno. Quello che colpisce di Francesco è la semplicità di stare con le persone, avvicinando tanti alla fede. Rompe gli schemi ma unisce; è umano, fa i suoi errori ma riporta alla vita vera».

Testo di Laura Badaracchi

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