N. 31 - 2017 30 luglio 2017
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Padre Jacques Hamel

Ucciso un anno fa, è simbolo di amore e pace

Parla la sorella dell’anziano sacerdote francese accoltellato nella cattedrale di Rouen il 26 luglio 2016. I terroristi volevano spingere alla guerra di religione, invece la sua morte ha innescato una catena di incontri e solidarietà

Padre Jacques Hamel

È passato un anno dall’omicidio del primo prete ucciso da un jihadista in Europa nel XXI secolo. Il 26 luglio 2016, in una chiesa semivuota e periferica della Normandia, veniva sgozzato a 85 anni padre Jacques Hamel.

Come ogni mattina si era alzato alle 7 e aveva cominciato la giornata con una preghiera a san Michele arcangelo. Recita il breviario, esce a comprare il pane e fa colazione col caffè e uno sfilatino. Non passerà da solo le prossime giornate, perché sua sorella Roselyne è arrivata dal nord-est della Francia con le figlie e due nipotine. Racconta: «Dovevamo restare con lui durante la settimana per far le pulizie della canonica, poi ad agosto saremmo andati in vacanza insieme». Quella mattina Roselyne è contenta perché il fratello ha un bell’aspetto con la sua camicia estiva. Essendo parrucchiera, nota subito che «si era tagliato i capelli, che abitualmente trascurava».

Dopo l’omicidio la sua foto sarà dappertutto: sulla stampa francese e internazionale, al telegiornale e sul web. Addirittura sulla copertina di Paris Match! In realtà era forse il sacerdote più umile della diocesi di Rouen. Il primo ricordo che Roselyne, di dieci anni più piccola, conserva di lui è di quando andava a trovarlo insieme alla mamma durante la ricreazione della scuola: «Me lo ricordo, tutto bianco con il suo grembiule nero. Mentre gli altri bambini giocavano e urlavano, lui se ne stava in disparte e osservava. Mi sembrava una pecora in mezzo ai lupi». Aveva il permesso di assentarsi dalle lezioni per fare il chierichetto ai funerali: «Il prete veniva a prenderlo e Jacques lo accompagnava».

UNA GIOVINEZZA NON FACILE
L’infanzia degli Hamel non era stata rosea: figli di un ferroviere e di una tessitrice, durante la guerra e l’occupazione tedesca il padre fu deportato in Germania, dove si ammalò per un’infezione. «Quando rientrò», racconta ancora la sorella, «i rapporti fra i genitori si erano guastati, noi bambini soffrivamo per questo e il nostro legame si rafforzò. Quando Jacques arrivò a 17 anni, i nostri genitori divorziarono». Tre anni prima, il ragazzo era entrato in seminario: «La mamma, molto pia», ricorda, «era entusiasta della scelta, mentre papà no. Lo vedeva bene ingegnere». Siccome al bambino piacevano i treni, sperava che avrebbe lavorato nelle ferrovie come lui.

La sua generazione è segnata dal conflitto in Algeria. I seminaristi non erano esentati dal servizio militare: Jacques si ritrova in un plotone di preparazione al grado di sergente, poiché per il livello di istruzione era destinato a sottufficiale. Ma lui rifiutò: non voleva «dare l’ordine di uccidere altri uomini», spiega alla sorella. In Algeria vede il male della guerra: è l’unico, tra i soldati della sua jeep, a salvarsi dopo un attentato. Secondo Roselyne lo rodeva questa domanda: «Perché io?».

Nel 1958 è ordinato sacerdote. Segue i lavori del concilio Vaticano II, si confronta con il mondo operaio, coltiva significative relazioni con gli anglicani e cambia diverse parrocchie, sempre in periferia. L’Eucaristia era la vetta della sua vita di prete: ne celebra la liturgia con molta cura, canta sempre alcune parti con la sua bella voce. Per lui è importante che l’assemblea partecipi col canto. Quando cessa l’obbligo della talare, ne è contento: da allora non la indossa più, né porta il clergyman. Nella vita privata ha uno stile francescano, perfino austero: «Questi calzoni mi vanno ancora bene», ripeteva, «non dimagrisco, non ingrasso: perché comprarne di nuovi?».

La morte della madre, nel 1988, lo colpisce particolarmente: si deprime e si irrita facilmente. Roselyne conferma: «Ha avuto bisogno di vari anni per elaborare il lutto. Si era lasciato andare, la gente lo riteneva un infelice». A poco a poco sviluppa un legame affettuoso con la nipote Jessica e supera il momento difficile.

Nel 2000 arriva nella parrocchia di Rouen, dove poi sarà ucciso. Qui crea nuove amicizie, la città è segnata dall’immigrazione: prima italiani e portoghesi, poi magrebini e africani subsahariani. Accanto alla chiesa di Santa Teresa sorge la più importante moschea della zona: preti e imam si frequentano; è la parrocchia che ha ceduto, per la somma simbolica di un franco, un terreno alla comunità musulmana.

QUEL 26 LUGLIO
Il 26 luglio 2016 si arriva all’irruzione, durante la Messa mattutina, del commando dei due jihadisti. Radicalizzati in internet e non nelle moschee, che non frequentano assiduamente, sono giovani in rivolta contro la società che trovano nel terrorismo la giustificazione per la loro rabbia. Quando entrano in chiesa e prendono in ostaggio i fedeli, padre Jacques dice loro: «Ma cosa fate? Calmatevi!». Le cose precipitano: uno dei due obbliga a mettersi in ginocchio il debole prete, che grida: «Vattene satana!». Sono parole che gli vengono dal Vangelo appena letto della zizzania e dei figli del Maligno. Secondo i testimoni, padre Hamel non voleva condannare un uomo, ma il diavolo che agiva per mezzo suo. Un colpo di coltello alla gola mette fine alla vita terrena del vecchio prete. Poco dopo gli agenti uccidono i due attentatori.

Roselyne parla di «un paradosso: lui che non ha mai voluto essere al centro, ha consegnato una testimonianza al mondo intero. L’abbiamo vissuta nella reazione di tutti quei cristiani che non hanno predicato la vendetta o l’odio, ma l’amore e il perdono; nella solidarietà dei musulmani che la settimana dopo hanno visitato le Messe domenicali». I terroristi volevano spingere alla guerra di religione, ma la Chiesa di padre Jacques e di papa Francesco rifiuta di cadere nella trappola. «Per noi, la sua famiglia, restano il dolore e il vuoto, ma è di grande conforto vedere quanti nuovi incontri, quanta solidarietà e amore sono stati generati dalla sua testimonianza». E la sorella conclude citando proprio il fratello: «La nostra vocazione», scriveva, «è quella di partecipare alla costruzione di una nuova fraternità, in un nuovo contesto mondiale».

Testo di Stefano Pasta

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