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La storia - Rudi Dalvai
Commercio equo e solidale, 30 anni di storia
Il fondatore del commercio equo e solidale in Italia, Rudi Dalvai, racconta com’è nato un movimento che oggi si trova in sintonia con l’invito di papa Francesco: costruire un’economia più equa
«È capace di toccare le questioni che bruciano, le ingiustizie, in modo così diretto e semplice. Se potessimo sceglierlo, papa Francesco sarebbe il nostro testimonial». Se è vero che gli italiani sono un popolo di inventori, Rudi Dalvai, 58 anni, altoatesino di Bolzano, è uno di loro. Non così noto come chi inventò la lampadina, eppure oggi molto in sintonia con quello che sta chiedendo il Papa: «È possibile instaurare un nuovo tipo di economia? Costruire relazioni commerciali più giuste ed eque?». Trent’anni fa, a partire da queste domande, è nato in Italia il commercio equo e solidale. Oggi è un fenomeno diffuso e conosciuto, con 300 punti vendita e di informazione in tutta Italia – le Botteghe del mondo – e 114 associazioni e cooperative coinvolte, che aderiscono al consorzio Altromercato. Nell’85 però esistevano solo tre amici in un garage, che avevano cominciato a importare manufatti di juta prodotti da una cooperativa di donne del Bangladesh. Rudi Dalvai era uno di loro. Anzi, quello che aveva convinto gli altri due. Lui per primo aveva lasciato il suo lavoro a tempo pieno in una ditta di surgelati per inseguire un sogno che si sarebbe delineato passo dopo passo: dimostrare che era possibile instaurare rapporti commerciali trasparenti con i Paesi più poveri del Sud del mondo attraverso un rapporto continuativo con i piccoli produttori, pagando il giusto prezzo e garantendo migliori condizioni di lavoro. Oggi Dalvai, oltre a essere il fondatore del commercio equo e solidale in Italia, è il presidente della World Fair Organization, che riunisce a livello mondiale tutte le organizzazioni equosolidali. È sposato, con una figlia di 21 anni che studia economia in Cile e un figlio di 20 anni che fa il designer tra Vienna e Bolzano.
- Quindi le piace papa Francesco?
«Moltissimo, e questo è pericoloso. Quando ero piccolo facevo il chierichetto, poi crescendo non mi sono trovato sempre d’accordo con la Chiesa e mi sono allontanato. Il rischio è che mi riporti all’ovile (ride). Del resto uno dei miei fratelli si è fatto prete, ed era proprio il più turbolento della famiglia».
- Quanti eravate in famiglia?
«Siamo dieci fratelli, mio papà era operaio di giorno e musicista di sera. Mia mamma non era mai ferma: ha cresciuto noi figli e ci faceva i vestiti in maglia, c’è sempre stata per la sua famiglia ma anche per chiunque avesse bisogno. Crescendo ci siamo sparsi per il mondo. Due mie sorelle hanno mariti africani, e quando si sono sposate, circa trent’anni fa, non era così comune. Da noi la differenza fra culture non è mai stata un problema. Credo che questo si debba proprio a mia mamma: la nostra casa non era grande ma aveva sempre le porte aperte».
Cosa la colpisce del messaggio del Papa?
«Circa sei mesi fa ha usato l’espressione “economia più equa”. Mi ha colpito perché è proprio quello che abbiamo cercato di costruire in trent’anni con Altromercato, e anche perché ho sempre pensato che ci siano due tipi di economia, una di servizio e l’altra di sfruttamento. Il commercio è una cosa bellissima se è ponte fra chi produce e chi consuma. Ma se diventa fine a se stesso, con l’unico obiettivo di massimizzare il profitto, perde la funzione che dovrebbe avere, cioè quella di collegare, e sfrutta sia una parte che l’altra. Oggi il consumatore è più informato ma si può ancora ingannare, per esempio facendogli credere di aver bisogno assolutamente di qualcosa di cui invece può benissimo fare a meno. Ma ancora più debole è il produttore. Non penso solo ai contadini del Sud del mondo che producono materie prime come il caffè, il cacao o le spezie ma anche agli agricoltori del nostro Sud Italia, che sono costretti – e uso di proposito questa parola – a sfruttare la manodopera per la raccolta dei pomodori o delle arance perché altrimenti devono vendere i loro prodotti sottocosto. Un’economia più equa è quella dove ognuno gioca il suo ruolo senza specularci, e soprattutto senza speculare sul più debole, perché è questo che succede: è sempre il più debole, alla fine, a essere sfruttato».
- Il commercio equo e solidale è nato trent’anni fa proprio con l’obiettivo di instaurare un’economia più equa. Ci è riuscito?
«Il commercio equo è partito come movimento di base, negli anni Sessanta, conosciuto da pochi e con tanto idealismo. Ci sono stati gli anni delle battaglie politiche, per esempio quelle contro il lavoro minorile e di pressione nei confronti delle multinazionali. Negli anni Novanta è stato creato un marchio di certificazione per far sì che i prodotti dell’equosolidale potessero entrare nei supermercati ed è stata una scelta che ha avuto successo. Oggi in Inghilterra, il 75 per cento della popolazione conosce il marchio equosolidale e tutti i supermercati vendono i suoi prodotti. In Italia dobbiamo ancora raggiungere questi risultati, ma negli ultimi anni sono nati fenomeni interessanti come i gruppi di acquisto solidale e i mercati dove i contadini vendono direttamente i loro prodotti. Trent’anni fa il biologico era ridicolizzato e oggi nessun supermercato potrebbe fare a meno di venderlo. Credo che il commercio equo sia stato parte di questo cambiamento, di cui stiamo ancora seguendo gli sviluppi».
- Quali sono le sfide future del commercio equo?
«La principale è mettersi sempre più in rete con altri fenomeni innovativi, per costruire un’economia più equa all’interno di ogni singolo Paese. All’inizio c’era l’idea del “Nord del mondo” che sosteneva i produttori del “Sud del mondo”, oggi vediamo che anche nei Paesi europei ci sono molti “Sud”. In Italia uno dei momenti che ce lo ha fatto capire è stata la rivolta a Rosarno dei raccoglitori di arance. Di recente abbiamo creato il marchio Solidale italiano: i prodotti del Sud del mondo continueranno a essere in vendita nelle Botteghe, ma a fianco ci saranno quelli provenienti da produttori italiani che lavorano secondo i criteri del commercio equo, soprattutto nel Sud Italia ma non solo. Fanno prodotti di qualità e nello stesso tempo costruiscono una nuova economia che mette al centro le persone».
Testo di Emanuela Citterio