N. 33 17 novembre 2013
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Scout

C'è chi crede nel cambiamento

Ad Archi, uno dei rioni più difficili di Reggio Calabria, gli scout cercano di mostrare ai ragazzi orizzonti nuovi. Fiducia contro intimidazione, impegno contro rassegnazione: un cammino lungo che sta dando i suoi frutti.

scout che giocano a pallavolo

 

Chi abita a Reggio Calabria non passa volentieri per Archi. Un po’ perché quel rione è tristemente noto per i 675 morti della guerra di mafia degli anni Ottanta, un po’ perché la nomea di quartiere più complesso e complicato della città è dura a morire. Eppure ad Archi qualcosa si muove. Ci sono famiglie che, pur abitando in altre zone della città, accompagnano i loro figli in quartiere per partecipare alle attività scout. «Un attestato di fiducia», sorride Mimmo Polito, a capo del gruppo Agesci Reggio Calabria 9. A portare avanti le attività del gruppo, in un ambiente segnato dalle contraddizioni, 18 educatori per lo più fra i 20 e i 30 anni. «Prima di impegnarsi chiediamo ai capi di soppesare bene l’idea di operare ad Archi – spiega Mimmo, 38 anni, ingegnere – si tratta di una scelta forte, spesso non compresa da chi abita in zona».

Una storia travagliata eppure ricca di speranza, quella degli scout di Archi. È il 1985 quando alcuni capi ventenni del centro città decidono di darsi da fare nel rione in cui sta scoppiando la guerra di mafia. «Non c’era nulla, non un circolo, una sezione di partito o un centro culturale. Nessuna associazione si azzardava a mettere in piedi qualcosa. Non c’era nemmeno l’illuminazione stradale, l’abbandono scolastico era al 33 per cento, tutto era controllato dalla criminalità», ricorda Enzo Romeo, trent’anni spesi per il quartiere.

Partono le iniziative, cominciano le difficoltà. L’obiettivo è promuovere azioni condivise, partecipate, ma ci si scontra con la diffidenza, con un “semplice”, ma alle volte ostentato, disinteresse. «Facevamo attività fino a che c’era il sole. Dopo il tramonto i ragazzi rientravano a casa e in quartiere tutti chiudevano le imposte per non vedere quello che sarebbe potuto succedere per la strada».

Fatiche e delusioni si superano con fede e tenacia. «Anche quando i ragazzi hanno smesso di venire perché alcune persone non gradivano il nostro operato e tante altre avevano paura, noi capi abbiamo continuato a trovarci in sede tutte le sere, con la luce accesa per far vedere che c’eravamo». Un servizio che è impegno quotidiano, forza di volontà e coerenza per non cedere alle lusinghe. «Non abbiamo mai accettato favori da nessuno, nemmeno quando si trattava di rendere agibile la sede: abbiamo aspettato di raccogliere soldi puliti prima di utilizzare cemento e contributi di dubbia provenienza», ricorda Enzo. Sistemata con il lavoro di molti, la sede oggi è aperta a tutti, scout e non, tutte le sere, anche in estate, a Natale e a capodanno. Un luogo di incontro, dove giocare e studiare, dove vali per quelli che sei, non per quello che hai. «In questi anni abbiamo capito che bisogna puntare tutto sulle relazioni – prosegue Enzo – i ragazzi ti seguono solo se capiscono che gli vuoi bene».

Giusy Vazzana, 35 anni, dopo nove anni a Torino ha deciso di tornare a impegnarsi a Reggio, come architetto e come scout. «Cerchiamo di innescare il cambiamento nei piccoli, abbiamo aperto le attività anche ai bambini di cinque anni e alle loro famiglie: alle elementari e alle medie i ragazzi sono già formati, è più difficile mostrare che altri stili di vita sono possibili». Il senso di solitudine che provano i giovani, è vero, è generazionale e diffuso in tutta Italia. Ma i ragazzi che vivono in famiglie serene hanno più possibilità di confronto e sostegno: «Quando, invece, hai una famiglia che non ti pone domande e non ti aiuta a cercare soluzioni, è più difficile – constata Giusy – a volte provo sconforto, il cambiamento culturale è un processo lento... ma l’educazione è l’unico modo per innescare la svolta». Se la malavita offre denaro e lavoro, il gruppo scout risponde offrendo adulti che danno fiducia ai ragazzi, sanno ascoltare e dicono la verità. «Affidandogli incarichi, i ragazzi sperimentano la possibilità di costruirsi e crescere – interviene Mimmo – diciamo loro di non accontentarsi, cerchiamo di indicare orizzonti nuovi, ampi, diversi da quelli che offre il quartiere. Mostriamo loro che possono essere migliori di quello che li circonda. Attraverso di noi, la Chiesa può decidere di essere vicina alla gente, di andare a prendere i ragazzi per strada».

La strada, appunto. Luogo delle tentazioni, dove ogni angolo è presidiato dalla malavita, dove è facile perdersi. «La nostra scelta è esserci: non stiamo solo chiusi in sede. Facciamo fare ai ragazzi servizio nel quartiere, doposcuola, animazione con bambini assieme alle Suore francescane, aiuto ai migranti e una mensa per i senza fissa dimora», spiega ancora Mimmo.

I problemi e gli interrogativi non mancano: «Come fai a parlare di cittadinanza e legalità quando ci sono ragazzi che hanno un genitore in carcere?», fanno notare i capi. Onestà contro ingiustizia, fatica e dedizione contro guadagno facile (perché illecito), speranza contro rassegnazione. Come Martin Luther King, Mimmo crede nell’agire sul silenzio degli onesti più che sulle urla dei violenti: «Il nostro sforzo è vivere la normalità, insegnare ai ragazzi a essere coraggiosi, non a diventare eroi. Nella nostra terra la normalità è bandita: l’onore è commisurato a quanto l’altro ha paura di te; per lo scautismo, invece, è quanto posso meritare la tua fiducia. Ancora, educare a essere laboriosi ed economi significa far passare l’idea che le cose me le guadagno, non che le rubo o le ottengo facendo il palo alla criminalità». Nel rione il degrado e la storia degli ultimi decenni pesano come macigni. Intimidazioni, fiamme dolose, porte sfondate. «Il gruppo ha sporto denuncia per ben sette volte – snocciola dati Enzo – compresa quella volta in cui alla festa patronale è stato incendiato un nostro banchetto e il parroco, in chiusura dei festeggiamenti, ha avuto il “coraggio” di dire che tutto era andato bene».

Ad Archi il lavoro di squadra è essenziale. «Noi non abbiamo la stessa forza della ’ndrangheta, che governa il territorio con atteggiamenti malavitosi – osserva Mimmo – sappiamo bene che chi rimane solo perde. Il troppo voler fare può essere pericoloso: oltre alla nostra incolumità, dobbiamo stare attenti a mantenerci attrattivi nei confronti dei ragazzi. Se lavori con troppa foga rischi di spaventare le persone che non hanno coraggio, e perdi i ragazzi. La sfida per noi è raggiungere i ragazzi, non pretendere che tutto cambi subito».

«I ragazzi hanno bisogno di sognare il cambiamento, di essere creativi per poter immaginare un futuro, un lavoro – prosegue Giusy – manca la speranza spirituale, hanno sete di Cristo ma non sanno dove trovarlo. E quando sentono la Chiesa lontana, a loro estranea, cercano altrove. Lo scorso anno abbiamo avuto l’opportunità di avere con noi un ex capo del gruppo, oggi sacerdote. Appena arrivava, veniva circondato dai ragazzi, curiosi e felici: abbiamo visto in loro un’esplosione di amore verso un Cristo che sembrava lontano».

Capi che non si sentono più in gamba degli altri, semmai sono forti di un impegno che dura ormai da quasi 30 anni. «Non siamo bravi, facciamo quel che si deve», dicono con sincerità. Una sincerità che sta dando i suoi frutti: negli anni sono nate tre vocazioni sacerdotali, oggi una decina di persone lavorano tra Forze dell’ordine e Guardia di finanza e, soprattutto, c’è un gruppo di circa 100 ragazzi che desiderano crescere con la voglia di sognare e migliorare. Benvenuti ad Archi, dove c’è ancora gente che crede nel cambiamento.

Testo di Laura Bellomi
Foto di Alessandro Mallamaci

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