N. 36 - 2018 9 settembre 2018
INSIEME di don Antonio Rizzolo

Caro Papa Francesco, puoi contare sulla nostra preghiera e sul nostro affetto

Le vicende che stanno scuotendo la Chiesa non ci devono scoraggiare. Anche se la barca della Chiesa è in un mare in tempesta…

Elena Ugolini

Noi insegnanti custodi del desiderio di verità

«Come diceva don Giussani, nel cuore degli studenti c’è un’esigenza di vero, di bello e di buono: intercettarlo è il compito…

Lo scandalo pedofilia

10 domande per capire il caso Viganò

Un vescovo ex ambasciatore della Santa Sede negli Usa ha pubblicato un dossier di accuse in cui chiede le dimissioni del…

Don Giacomo Martino

Così la Chiesa di Genova sta accanto a vittime e sfollati

Il responsabile diocesano della Pastorale dei migranti è stato tra i primi a mobilitarsi per l’accoglienza di chi ha perso…

Emanuela Zurli

Quella parola di Dio parlava proprio a me

La biblista che sui prossimi numeri di Credere curerà i dossier sui patriarchi, racconta come l’incontro con la Sacra Scrittura…

Nonantola

Nel cuore spirituale del medioevo

Riapre la chiesa dell’abbazia benedettina di San Silvestro lesionata dal terremoto dell’Emilia nel 2012. All’epoca di Carlo…

Ite, missa est di Daniele Rocchetti

Il sangue versato ha per tutti lo stesso colore

Genitori israeliani e palestinesi che hanno perso un figlio nel conflitto che insanguina la Terra Santa si ritrovano per…

Per una lettura completa...

Ite, missa est di Daniele Rocchetti

Il sangue versato ha per tutti lo stesso colore

Genitori israeliani e palestinesi che hanno perso un figlio nel conflitto che insanguina la Terra Santa si ritrovano per superare insieme il dolore

Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Ogni volta che vado a Gerusalemme incontro Rami, un carissimo amico ebreo, figlio di un superstite di Auschwitz, israeliano da diverse generazioni. Rami, vent’anni fa, ha perso l’unica figlia femmina, Smadar, uccisa in seguito a un attentato suicida.

Rami, dopo un doloroso percorso, oggi è una delle figure di spicco dei Parent’s Circle, l’associazione a cui possono aderire unicamente genitori ebrei e palestinesi che hanno perso il figlio o un parente stretto nel conflitto. Ogni volta, racconta che lui e i palestinesi sono fratelli nel dolore. Loro, famiglie delle vittime, insieme dal profondo del comune dolore, vogliono dire a tutti che il sangue è dello stesso colore rosso, la sofferenza è identica e cosi pure le stesse identiche lacrime amare. E soprattutto che l’altro è un essere umano, non un terrorista, ma una persona con un nome e un cognome, una storia ricca di sentimenti ed emozioni.

La stessa emozione che provo quando sosto a Yad Vashem, la collina della memoria eretta da Israele agli inizi degli anni Sessanta per ricordare la Shoah, lo sterminio di sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti e dai loro collaboratori. Un posto unico al mondo dove la ricerca storica e alcuni luoghi sparsi qua e là sul territorio museale cercano di aiutare il visitatore ad andare oltre l’arida contabilità dei morti per cercare di cogliere i volti, le storie, le biografie di uomini e donne. Ognuno con il suo carico di dolore e di speranza.

Ed è quello che, con dolore, restituisce il Memoriale dei Bambini. Un labirinto nel buio, costruito in una caverna al termine della quale cinque candele, attraverso uno straordinario gioco di specchi, vengono riflesse un milione e mezzo di volte, numero approssimativo dei bambini e dei ragazzi ebrei morti nei lager. Mentre si gira attorno a questo firmamento di stelle, seguendo nella penombra un corrimano, voci registrate elencano i nomi delle vittime: «Eugene Sandor, 12 anni, Jugoslavia… Maritza Mermelstein, 8 anni, Cecoslovacchia…». Giorni e giorni sono impiegati per chiamare tutti per nome. Perché, come dice un detto ebraico, «Dio sa contare solo fino a uno».

Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Archivio

Vai