N. 36 8 dicembre 2013
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Max Tresoldi

Lucrezia affida il figlio a Maria. Max oggi vive

Massimiliano Tresoldi si è risvegliato dopo dieci anni di coma

Max Tresoldi con la madre

 

La giornata di Lucrezia Povia inizia ogni mattina molto presto. Una preghiera appena sveglia, che come dice lei “le dà carica” e poi il primo pensiero va a Massimiliano, da tutti conosciuto come Max, il secondogenito della coppia Tresoldi, che vive a Carugate, in provincia di Milano. Max solo qualche anno fa si è svegliato da un sonno durato dieci anni e iniziato il 15 agosto 1991, quando un incidente stradale lo riduce in coma. Dieci interminabili anni per i Tresoldi, che non hanno mai smesso di sperare e di credere che Max non era quel “tronco senza vita” che i dottori continuavano a ripetergli. «Sono stati anni durissimi per tutta la famiglia. Ricordo che l’incidente avvenne alle 7 del mattino e alle 9 con una telefonata ci veniva comunicato che Max si trovava all’ospedale di Melegnano in gravissime condizioni. Mi sentii crollare il mondo addosso, l’unica speranza era che ci fosse stato un errore. Corremmo in ospedale e quando, con mio marito, ci fecero entrare in una piccola stanza, con grande dolore constatammo che si trattava di nostro figlio. Restammo senza parole nel vedere quel corpo bello e abbronzato mentre il dottore ci comunicava che il ragazzo era in coma: da lì è iniziato il nostro calvario. Sono stati anni duri anche perché non si sapeva se Max percepisse la nostra presenza. Al tempo stesso continuavamo a ripetere a tutti coloro che avevano contatti con lui che dovevano credere e sperare, che prima o poi sarebbe successo qualcosa».

Quel qualcosa è successo alcuni giorni dopo il Natale del 2000. «Ricordo come tutte le sere pregavamo prima di dormire ed io, che mi sentivo particolarmente affaticata quella sera, esclamai: “Questa sera sono stanca Max, il segno di croce te lo fai da solo”. Lui si alzò e compì il gesto di sua spontanea volontà. Credetti di essere impazzita e invece, da quel momento, è iniziata la sua ripresa. La gioia fu immensa, avevamo sempre creduto nel possibile recupero di Max anche a discapito di chi affermava che scientificamente non potevano esserci speranze». Speranze invece alimentate ogni giorno dalla fede e dalla preghiera. «Pregare insieme per me era diventato qualcosa di normale. Gli insegnavo come farsi il segno della croce, recitavamo il rosario ogni sera prima di addormentarci. Continuiamo a farlo, ma adesso il segno della croce se lo fa da solo», racconta Lucrezia con un sorriso.

Piccole conquiste di ogni giorno. Il recupero completo delle funzionalità motorie prosegue costantemente e riempie di gioia mamma Lucrezia. «Ogni anno porto Max a Lourdes, chiedendo alla Madonna la grazia di rivederlo parlare. Alla vigilia del nostro primo viaggio, ancora prima che Max si svegliasse, feci un sogno: ero a Lourdes, in una piazza gremita di persone. Pur non essendoci mai stata e non sapendo com’era la cittadina francese, mi ritrovai in mezzo ad una folla immensa a cantare l’Ave Maria. Era come se questo disegno fosse già scritto». Un legame forte con la Madonna, testimoniato anche da date che sono significative ricorrenze mariane e che, per “coincidenza”, si intrecciano con la vita di Max: la nascita l’8 settembre, quando secondo Lucrezia «Max non doveva nascere in quel giorno», e la data dell’incidente, avvenuto il 15 agosto. A Lucrezia la Vergine ha sempre dato una grande forza ad andare avanti, nonostante le tante difficoltà e i momenti di grande scoraggiamento, che hanno costellato questi lunghi dieci anni. «Quando avvenne l’incidente non ho mai detto “perché proprio a me?”, ma semplicemente continuavo a chiederle di darmi la forza di andare avanti. Ripetevo “non so che progetti hai su di me, ma ti prego dammi la forza”».

Un dialogo confidenziale da “mamma a mamma”, con la Madre di Cristo, nella richiesta di quel coraggio, per lei che afferma di non essersi mai sentita una donna forte. «Il primo miracolo della Madonna è stato proprio il momento in cui le ho chiesto di potermi aiutare ad affrontare ogni giorno. La fede per me è stata tutto e ha significato anche l’unità familiare. I primi anni sono stati duri e hanno segnato ognuno di noi, ma la forza è stata sempre quella di rimanere uniti, di comprenderci e aiutarci vicendevolmente. Io e mio marito Ernesto siamo cresciuti in famiglie semplici, che ci hanno insegnato che il più debole è quello da curare. Per questo per me era normale mettere al primo posto Max ed accudirlo, ovviamente senza tralasciare gli altri due figli, ma chiarendo ruoli e spazi di ognuno e loro lo hanno capito».

Un’unità alimentata da quella fede costante, che negli anni ha portato i suoi frutti. «Mi sento orgogliosa – racconta Lucrezia – sento di aver seminato molto e oggi quei semi li vedo nel quotidiano e nella vita degli altri due figli, che sono sposati e hanno famiglie unite a loro volta. Alle persone che mi contattano in cerca di sostegno dico di accettare la situazione che si trovano ad affrontare, altrimenti non si va avanti. E che non bisogna smettere di credere, perché finché c’è fede, c’è vita».

Testo di Francesca Baldini
Foto di Attilio Rossetti

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