N. 37 15 dicembre 2013
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J.R.R. TOLKIEN, IL CANTORE DEGLI UMILI

Un ritratto del professore inglese creatore della saga fantasy. «Le grandi questioni della storia – scriveva – non vengono fatte girare dai signori, ma da coloro che sembrano sconosciuti

Tolkien

E così torniamo a parlare di Tolkien. Le saghe cinematografiche tratte da Il Signore degli anelli e ora da Lo Hobbit entreranno nel nostro immaginario come Star Wars. Non a caso: con oltre 100 milioni di copie vendute, Il Signore degli anelli è il romanzo più letto del Ventesimo secolo. Ed è sempre più studiato. L’opera di Tolkien appare ormai un “classico”, compaesano di Don Chisciotte e dei Promessi Sposi, piuttosto che di Harry Potter e di Twilight. D’altra parte, se lo avessero appellato “scrittore fantasy”, il colto e severo professore di Oxford si sarebbe incupito. Provate a immaginarvelo, John Ronald Reuel Tolkien. Docente di filologia germanica e anglosassone, giacca in tweed e panciotto, marito integerrimo e padre di quattro figli, amante della pipa e dei boccali di birra con gli amici. Quasi un’incarnazione del perfetto inglese: raffinato, amante della tradizione e con una sostanziosa vena sotterranea di indomita creatività.

Scomparso 40 anni fa, Tolkien non è tuttavia conosciuto come meriterebbe. Eppure la sua biografia non è meno eroica dei suoi romanzi. Orfano del padre all’età di quattro anni, fu cresciuto insieme al fratello dalla madre, Mabel. Che si prese cura di loro da sola, poiché i nonni le avevano rifiutato ogni aiuto dopo la sua conversione al cattolicesimo. Nonostante le difficili condizioni economiche e la salute precaria, Mabel curò anche la loro educazione, scoprendo l’attitudine del primogenito per le lingue. Morì a 34 anni, affidando i due ragazzi al sacerdote oratoriano Francis Xavier Morgan. Tolkien era appena dodicenne. La coerenza della madre imprimerà nel suo animo il senso della lealtà fino al martirio.

Il piccolo John R.R. era affascinato dalle parole, tanto da inventarle. «Molti bambini – annoterà nel 1951 – creano, o iniziano a creare, lingue immaginarie. Io mi ci sono cimentato sin da quando ho imparato a scrivere. Ma non mi sono mai fermato». A questa passione, che lo porterà a studiare il gotico e il norreno (due antiche lingue, parlate fino al Medioevo ndr), si unì quella per le antiche saghe scandinave. Nelle trincee della Prima guerra mondiale, tuttavia, Tolkien sperimentò che nella guerra c’era poco della grandezza cantata dai bardi. E che il fascino dei miti poteva essere strumentalizzato per infiammare giovani ingenui. Come faceva il nazismo. «Quel piccolo dannato ignorante di Adolf Hitler – scriverà nel giugno 1941 – sta rovinando, pervertendo, distruggendo, e rendendo per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa, che io ho sempre amato, e cercato di presentare in una giusta luce». Sarà questo amore a far nascere in Tolkien il desiderio di regalare al suo Paese, l’Inghilterra, una grande storia epica nella quale rispecchiarsi. Una storia nella quale, tuttavia, gli eroi non sono quelli che ci si potrebbe aspettare.

Nello Hobbit e nel Signore degli anelli troviamo tutti gli elementi classici dei racconti scandinavi, ma completamente rielaborati... proprio come fecero gli autori della Bibbia con i miti babilonesi. La magia compare poco ed è un potere ambiguo. Impossibile ricordare il nome di un solo incantesimo. Gli artefatti incantati – i Palantir o l’Unico Anello – non vengono adoperati, perché corrotti dal male. I personaggi, pur positivi come gli Elfi, che restano troppo ancorati al passato perduto sono definiti «imbalsamatori». I condottieri non sono invulnerabili né immuni al dubbio, talvolta neppure alle seduzioni del male. Infine, accanto a draghi, elfi e nani – figure che vantavano già una lunga tradizione – appare una nuova razza, che è forse l’unica cosa inventata di sana pianta da Tolkien: gli hobbit. Un popolo minuscolo, più basso perfino dei nani, amante della calma e della terra ben coltivata, «con una bocca fatta per ridere, bere e mangiare». Né geniali né agguerriti, privi di ambizione e brama di ricchezza, saranno proprio questi “mezzuomini” a mettere in moto tutta la storia. E a far sì che si concluda per il meglio.

È Tolkien stesso, in una lettera a Milton Waldman, a dirci che questa idea si fece sempre più chiara dentro di lui, fino a divenire dominante nello Hobbit. «Le grandi questioni della storia del mondo – scrive – non vengono fatte girare dai signori e dai governanti, e nemmeno dagli dèi, ma da coloro che sembrano sconosciuti e deboli». Perché sono loro che si lasciano guidare dalla Provvidenza e dalla Grazia. Viene in mente il Magnificat: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Luca 1,52). E quello che diceva il cardinale Jean Daniélou, «l’eroismo dimostra quel che può fare l’uomo, la santità quel che può fare Dio». Gli hobbit... sono eroi? Forse no. Ma... se fossero santi?

Testo di Paolo Pegoraro

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