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L'esperienza | don Fabio Bertuola
«Qui c’è il Veneto che accoglie»
A Maser, in provincia di Treviso, dove la Lega Nord miete consensi, don Fabio Bertuola ha destinato la canonica inutilizzata ai rifugiati, ancor prima dell’appello di papa Francesco.
In foto: don Fabio Bertuola davanti alla canonica della parrocchia con alcuni rifugiati.
Tutto è cominciato più di un anno fa, era appena iniziata la primavera e la canonica rimaneva inutilizzata ormai da tempo. Allora ho avuto l’idea di proporre un nuovo uso e ho chiesto al Consiglio pastorale di poterla utilizzare per accogliere chi aveva bisogno di un tetto, i più poveri, i rifugiati, i disperati che già arrivavano in cerca di futuro nel nostro Paese.
All’inizio, anche in Consiglio non tutti sono stati d’accordo ma poi hanno capito le mie ragioni e in estate, già da luglio scorso, con la gestione della Caritas diocesana, sono arrivati i primi ospiti, sedici uomini dai 18 ai 35 anni che scappavano da persecuzioni e guerre in Africa subsahariana, Bangladesh, Pakistan». A parlare è don Fabio Bertuola, parroco della chiesa intitolata alla Conversione di San Paolo a Maser. Siamo in quel triangolo tra Treviso, Padova e Venezia, in pieno Veneto leghista, proprio nel territorio che più si è appassionato politicamente contro i rifugiati, con le polemiche di Matteo Salvini e del governatore Zaia seguite ai fatti di cronaca che a circa trenta chilometri da qui, a Treviso, hanno visto protagonisti cittadini italiani in episodi da “guerriglia” urbana.
Eppure proprio in questo territorio così “aspro” nonostante le colline, e un po’ duro, sono nate le prime esperienze di accoglienza, anche prima che papa Francesco lanciasse il suo appello per l’apertura di tutte le parrocchie ai profughi. Un caso è appunto quello di don Fabio che ha adibito la canonica attaccata alla chiesa, tra le due scuole, per l’ospitalità gratuita ai rifugiati. «Sono persone molto tranquille e grate dell’accoglienza», racconta don Fabio. «Con la comunità, che qui a Maser conta poco meno di cinque mila anime, dopo qualche perplessità iniziale da parte di alcuni genitori che non volevano più mandare i figli a catechismo, non ci sono stati grossi problemi e la Caritas che gestisce l’accoglienza assicura loro corsi di italiano e attività che li tengono impegnati durante la giornata, in attesa che vengano riconosciuti dalle commissioni ministeriali come rifugiati o migranti».
Un’attesa che può durare dai sei mesi a un anno e alla fine, dopo la valutazione della commissione, si sviluppa in un visto di asilo politico o in una richiesta di rimpatrio. «Nel frattempo», racconta Annalisa Faveri, responsabile accoglienza migranti della Caritas trevigiana, «gli stranieri hanno un regolare permesso di soggiorno che gli viene dato al momento dell’identificazione dalla Prefettura e noi cerchiamo di prepararli alla vita “normale” in un contesto che non conoscono, totalmente diverso da quello da cui provengono, quindi facciamo corsi di italiano, attività di laboratorio, assistenza legale e sanitaria e anche corsi pratici su come avvicinarsi al mondo del lavoro per quelli che poi rimarranno qui». Inoltre, continua Faveri, «viste anche le difficoltà del territorio, promuoviamo incontri con la comunità per spiegare cosa significa essere un migrante, perché si è arrivati a questo contesto geopolitico e cosa genera questi flussi, così chi è più diffidente può capire e conoscere le loro storie».
Nella ex canonica diventata casa di accoglienza ci sono due operatori Caritas che, a turno, vivono con i 18 rifugiati per coadiuvarli nelle varie attività quotidiane. «Tutto funziona come in una casa normale», dice Marco Berdusco, 29 anni, operatore da un anno. «Loro dormono in stanze da quattro, ci svegliamo, a turno due di loro preparano la colazione, si fanno le pulizie e poi c’è il corso di italiano. Intorno alle 13 altri due ospiti preparano il pranzo per tutti. Nel pomeriggio altre attività e poi alle 20 si chiude la porta di casa e si dorme». «Nonostante le differenze di provenienza, di etnia, di religione e di tradizione, conviviamo tutti in armonia rispettando le differenze anche alimentari quando è possibile», continua Marco.
Poi nella casa c’è una stanza adibita con tappeti e con un crocifisso: «È la stanza comune della preghiera, ci vanno i musulmani a pregare cinque volte al giorno, e i cristiani ortodossi o i nigeriani che, pur frequentando la loro comunità a Treviso, ci vanno se vogliono momenti di raccoglimento in casa». Le storie degli abitanti di questa ex canonica hanno tutte il denominatore comune della violenza e della fuga dal Paese di origine. C’è Sijan, 20 anni, che con alcuni compagni è fuggito dal Pakistan perché apparteneva a un movimento studentesco d’opposizione al regime; c’è Abil, induista del Bangladesh, che è fuggito dagli estremisti islamici perché minacciato per la sua religione, e ha dovuto lasciare moglie e figli in patria, scappando due volte, prima dal suo Paese andando in Libia a lavorare, e poi dalla Libia, per la guerra.
E poi ci sono i nigeriani, scappati da Boko Haram che ha distrutto i loro villaggi. Storie lontane, diverse, violente, che ultimamente arrivano molto vicino a noi. A volte sono lì, a due passi dalle nostre case, senza sfiorarci. Con queste storie però saremo sempre più obbligati a confrontarci.
Testo di Geraldine Schwarz