Il vero eroe che noi presentiamo è Gesù Cristo, il compagno e l’amico dei giovani
Manca poco più di un anno al prossimo sinodo dei vescovi, che avrà per tema «i giovani, la fede e il discernimento vocazionale».…
Il prete che sa ascoltare i ragazzi
Secondo l’assistente dell’Azione Cattolica, alle nuove generazioni mancano modelli di adulti cui fare riferimento. «Per questo»,…
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Don Tony Drazza
Il prete che sa ascoltare i ragazzi
Secondo l’assistente dell’Azione Cattolica, alle nuove generazioni mancano modelli di adulti cui fare riferimento. «Per questo», dice, «sogno che le parrocchie siano luogo di incontro tra le diverse età della vita»
A ogni singola domanda, prima di rispondere don Tony Drazza si concede un momento di silenzio: è breve, impercettibile, ma l’impressione è che la sua forza venga tutta da lì, da quella concessione alla lentezza del dialogare che è sempre più rara ai giorni nostri.
Dopodiché inizia a parlare, con un carisma in grado di infondere peso a ogni parola pronunciata. E a quel punto capisci: capisci perché, a dispetto del suo desiderio di diventare parroco – che coltiva da quando aveva 11 anni – il suo vescovo e l’Azione cattolica abbiano avuto altri piani per lui: l’hanno mandato in giro per l’Italia, in qualità di assistente centrale per il settore Giovani dell’Azione cattolica, per incontrare e ascoltare i giovani.
Don Tony riesce infatti a intercettare il cuore delle persone, a bussare a quelle porte dalle quali di solito ci si tiene lontani per timore di quello che si potrebbe trovare nel fondo dell’anima. Lui invece bussa, rievoca, ispira, solleva domande senza scadere mai in false complicità giovanilistiche (va fiero dei suoi 40 anni) e, soprattutto, senza scandalizzarsi per quel che trova nei cuori. La sua è una vita un po’ nomade: gira per l’Italia dal 2012 a oggi, cambiando letto quasi ogni giorno. L’impressione, però, è che sia esattamente dove debba essere, in una parrocchia priva di pareti e stanze, ma meravigliosamente under30.
Partiamo all’inizio, da quell’undicenne che decide di entrare in seminario. Come si fa ad avere le idee così chiare, fin da bambino?
«In realtà a 11 anni non capisci che la tua strada è il sacerdozio. Però senti che ci sono amicizie e bellezze da vivere che ti portano a stare lì: percepisci qualcosa che ti affascina, anche se non sai ancora dargli un nome. La scelta, in maniera seria, l’ho presa dopo i 18 anni. Il mio è stato, comunque, un percorso di fede molto tranquillo: i genitori mi hanno appoggiato, gli anni in seminario sono stati bellissimi, senza grandi difficoltà. D’altronde la vita di vocazione è una vita fondamentalmente normale».
Eppure oggi c’è molta confusione sul significato della vocazione: nessuno ha ben chiaro cosa sia, a meno che non ci siano situazioni eclatanti di conversione.
«La vocazione è vivere seriamente la vita che ti trovi davanti: essere dentro alla quotidianità, alle scelte, alle relazioni. Il Signore non mi si è manifestato nei sogni, né in santi particolari, ma in persone che mi hanno voluto bene e che mi hanno fatto capire che la strada intrapresa era giusta. Non sono mai andato alla ricerca di segni o di coincidenze particolari, anche perché non esistono momenti in cui Dio parla di più, o di meno: Dio c’è sempre. Semmai ci sono momenti in cui tu sei più (o meno) disposto ad ascoltarlo. Credo pertanto che sia fondamentale, per capire la propria vocazione, riscoprire la lentezza della vita e concedersi uno spazio di silenzio, dove interrogarci realmente sul senso della vita».
Immagino che se lei, a oggi, ha accantonato il suo sogno della parrocchia, l’abbia fatto anche per obbedienza. Quanto questo valore è ancora attuale ai giorni nostri?
«In seminario alcuni coetanei mi dicevano che, se avessi fatto tutto quello che veniva indicato dai superiori, non avrei mai sbagliato. Forse avevano anche ragione, ma sarebbe stato come rinunciare alla mia personalità. Penso che obbedire voglia invece dire fare un percorso insieme a chi ha compiti di autorità e, nel farlo, intravedere vie di felicità nella persona che segui. È un lavoro lungo, che richiede una lentezza nella relazione: implica parlarsi, incontrarsi e anche… perdere tempo».
È così che lei si pone con i giovani?
«I giovani, più di altri, hanno bisogno di qualcuno che dia fiato al loro cuore, che gli dica che c’è un’altra possibilità di vita, e che loro non sono solo problemi. Penso che i giovani vadano ascoltati, più che interrogati: bisogna sedersi con loro, camminare accanto. Tra l’altro, se li ascolti, i ragazzi ti presentano una vita carica di significato. Poi, certo, bisogna aiutarli a indirizzare il cammino, ma non è nulla di diverso da quello che, a suo tempo, gli adulti hanno fatto con noi».
La società si è sempre interrogata sui giovani ma pare che questa generazione sia più indecifrabile e inafferrabile rispetto alle precedenti. È così?
«Sono gli adulti a essere indecifrabili. L’aggettivo adulto dovrebbe indicare una persona che ha finito di crescere, invece oggi gli adulti sono ancora più ingarbugliati di un giovane. Recentemente ho confessato un gruppo di dodicenni cresimandi e molti ammettevano di disobbedire alla madre. A un certo punto ho preso il coraggio e, rischiando di fare una figuraccia, ho domandato: “Scusa, e papà?”. La risposta è stata: “No, con lui tutto bene: lavora…”. Vorrei quindi capire l’adulto maschio dove cavolo sta! Oggi sono sempre meno gli adulti che accompagnano, custodiscono e vogliono bene ai giovani. Alla loro età, noi avevamo qualcuno che ci faceva da corazza aiutandoci a parare i colpi della vita. Loro invece devono difendersi da soli. Così hanno imparato a schivare: vivono molte esperienze, ma poi sono pochissime quelle che lasciano traccia nel loro cuore, comprese purtroppo le relazioni affettive».
A quali condizioni può esserci un confronto reale tra adulti e ragazzi?
«Può esistere solo se i giovani trovano spazi di accoglienza, dove nessuno guarda in cagnesco l’altro. Ecco, vorrei che le parrocchie fossero così: luoghi dove queste due generazioni, così diverse e distanti tra loro, possano accogliersi, abbracciarsi e soprattutto dirsi le cose belle che appartengono loro. Più vado avanti e più mi rendo conto che noi dobbiamo essere una possibilità per gli altri: la nostra vita deve essere una via nuova affinché gli altri possano vivere una vita un po’ più normale, un po’ più bella. E questo anche in mezzo a tutte le nostre difficoltà. D’altronde possiamo capire il prossimo solo se abbiamo, a nostra volta, attraversato i problemi delle vita. C’è bisogno di gente che abbia fatto esperienza, non di intellettuali».
PAROLA AI GIOVANI
Tra un anno, nell’ottobre 2018, si aprirà la 15ª assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi che metterà a tema «i giovani, la fede e il discernimento vocazionale». In preparazione a questo importante evento ecclesiale, Credere pubblicherà almeno una volta al mese storie che vedono protagonisti i giovani e chi si occupa di pastorale giovanile. Partiamo in questo numero con i ritratti di don Tony Drazza, il sacerdote dei giovani dell’Azione cattolica italiana, e di Cristina Simoncini, una ragazza cresciuta in oratorio.
Testo di Francesca D’Angelo - Foto di Stefano Dal Pozzolo/Contrasto