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Essere chiesa nelle tendopoli
La testimonianza di don Savino D’Amelio, parroco di Amatrice, e degli altri sacerdoti della diocesi di Rieti: «Ci impegniamo nella ricostruzione dei cuori per mantenere la speranza cristiana»
La crepa taglia in due la sacra famiglia e le ali degli angeli che annunciano la Buona novella. Il sisma ha impresso la sua firma nel marmo scolpito della porta della misericordia. La chiesa è inagibile, così come tutte le altre palazzine della casa di riposo, ex Opera dell’infanzia per il Mezzogiorno, transennata dalle strisce bianche e rosse dei Vigili del fuoco. Ora per la gente di Amatrice la porta santa da varcare è questo cielo plumbeo che arriva fin dentro l’anima e rende difficile riallacciare il filo con quel Padre misericordioso, a lungo invocato nella notte del 24 agosto.
UN CROCIFISSO SENZA BRACCIA
A pochi passi, tra il prefabbricato della farmacia, la tenda per l’assistenza socio-sanitaria montata dalla Protezione civile e, più in basso, quelle della Croce rossa, c’è un tendone in plastica bianca con un piccolo altare sul fondo e un crocifisso senza braccia. Accanto la macchina di don Savino, il parroco di Amatrice. «È diventata il mio ufficio», dice. Sul sedile posteriore il messalino, la valigetta nera con l’occorrente per celebrare, i paramenti sacri e… il caschetto, obbligatorio per i sopralluoghi nella zona rossa. La cattedrale di Sant’Agostino è a poche centinaia di metri. «È irriconoscibile, è saltato il rosone, le colonne barocche dell’altare son venute giù, con tutte le statue», dice il parroco, 69 anni, che il 28 ottobre festeggia gli otto anni di permanenza ad Amatrice.
Tra le macerie, ricorda quasi commosso, durante il primo sopralluogo ha recuperato l’antico cammeo della Madonna di Filetta, molto venerata nella zona. I Vigili del fuoco, guidati dai funzionari del ministero per i Beni culturali, portano in salvo le tele rimaste sotto le macerie, gli argenti dell’arredo liturgico intatti nonostante le migliaia di schegge di vetro, e, al contempo, aiutano don Savino a recuperare gli oggetti della quotidianità perduta, gli effetti personali dispersi tra Madonne sfregiate e statue del Sacro Cuore a pezzi.
«Questa è una piccola comunità. Nel centro ci sono circa 900 abitanti, con le frazioni arriva a 1.100 e con le altre quattro parrocchie siamo a 2.100 abitanti. Una popolazione per il 60 per cento di anziani, 250 gli studenti, dai tre anni al primo liceo. Insomma, i giovani sono pochi, e al momento ancora non sappiamo chi si fermerà e chi invece sceglierà di andare sulla costa o da qualche altra parte». Presbitero della “Famiglia dei discepoli”, nati al servizio dell’Opera dell’infanzia per gli orfani dei soldati della Prima guerra mondiale, don Savino declina il carisma «Verità nella carità» alla luce della situazione attuale. «Dopo il sisma ho pregato a lungo le prime due parole del Padre nostro. E da allora continuo a chiedere tutti i giorni che la fortezza e l’entusiasmo non vengano meno. Anche di fronte alle domande di senso che soprattutto gli anziani mi fanno».
LA MESSA NELLE TENDOPOLI
In questi anni, anche se con fatica, ha cercato di far passare l’idea della parrocchia come famiglia di famiglie. «Soprattutto con la benedizione della case, piano piano li ho conosciuti tutti». E tanti li ha dovuti benedire mentre venivano estratti dalla macerie. Insieme ai cadaveri dei turisti riversatisi nel paese per le tradizionali sagre estive.
Sono cinque i sacerdoti, oltre ad alcuni religiosi e a giovani volontari di diverse organizzazioni cattoliche, che girano tra gli sfollati, per ascoltare, portare conforto e assistenza spirituale. Oltre a don D’Amelio, ogni giorno don Paolo Osuala, don Giovanni Akuma, don Fabio Gammarrota e don Cristoforo Kozlowski celebrano Messa in una delle tendopoli allestite in paese. La domenica in tutte. «Ringrazio Dio per il dono della vita, sento che questa è la croce che insieme dobbiamo portare in questo momento», dichiara don Osuala, nigeriano, da quattro anni parroco a Torrita.
Mentre in tutte le parrocchie della diocesi si cominciano a formare i gruppi per la preparazione della Prima comunione e si ritrovano i ragazzi dell’oratorio e della Cresima, nelle zone colpite dal sisma si aspetta per capire quale sarà il volto della comunità una volta smontate le tendopoli.
VICINANZA E CATECHESI
«Anche se non ci sono più le chiese di pietra, la comunità continua a esserci e ciò che conta ora è far sentire la nostra vicinanza», dice don Marco Tarquini, direttore dell’Ufficio catechistico diocesano. La sua formazione giovanile è passata attraverso un’esperienza che oggi rilegge con attenzione: «Ero al seminario di Assisi e ci hanno mandati, nel ’97, nelle tendopoli di Nocera, Gualdo, Colfiorito: lì facevamo momenti di preghiera e di incontro anche con i ragazzi del catechismo, cercavamo di non farli sentire soli. Questo è quanto stiamo cercando di fare adesso anche qui. Poi vedremo come procedere con la catechesi in senso stretto».
IL CONVEGNO DIOCESANO
Un momento di confronto su come riprendere il cammino arriva dal convegno diocesano di apertura dell’anno, celebrato dal 9 all’11 settembre a Contigliano. «Dopo il 24 agosto abbiamo riletto i tre verbi da cui eravamo partiti – camminare, costruire, confessare – in accompagnare, ricostruire, imparare a credere», dice il vescovo di Rieti, monsignor Domenico Pompili. «È stata una devastazione che coinvolge tutto il territorio e non solo il cratere del sisma. Vogliamo accompagnare questo grande dolore soprattutto con la vicinanza». E poi, «impegnarci nella ricostruzione dei cuori, prima ancora che delle case, per mantenere la speranza cristiana, nonostante questi 80 secondi che hanno cambiato completamente la vita e lasciato il segno».
Fin dall’inizio, dice il vescovo, i sacerdoti hanno girato nelle zone colpite e ci si è dati l’obiettivo di avere una tenda come «luogo di incontro, punto di adorazione e preghiera, ma anche garanzia di una presenza, luogo di identificazione della comunità. Abbiamo visto che anche la gente più frastornata ci accoglie disarmata quando ti presenti nel nome di Gesù Cristo». C’è forte il desiderio di trovare nella chiesa un luogo di incontro e di identificazione, «per questo insisteremo che, nella costruzione dei moduli abitativi provvisori, ci sia lo spazio del borgo, dell’incontro, della comunità».
Testo di Vittoria Prisciandaro
Foto di Stefano Dal Pozzolo/Contrasto