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Mariella Carlotti
I miei studenti, un dono di Dio che mi fa crescere
Nata nel 1960 a Perugia, dove poi si è laureata in Lettere, vive a Firenze e da 20 anni insegna in un istituto professionale di Prato
Quella dove insegna Lettere da vent’anni — l’istituto professionale “Marconi” di Prato — è una scuola statale «durissima», per sua stessa ammissione, prevalentemente maschile, dove il 40 per cento degli alunni sono extracomunitari e tanti ragazzi vivono situazioni di forte disagio. Eppure Mariella Carlotti non la cambierebbe per nulla al mondo.
«Sembrerà un paradosso», attacca, «ma i miei ragazzi, spesso feriti dalla vita, sono molto interessati a materie che, come italiano e storia, offrono loro occasioni di riflessione su sé e sul mondo (occasioni che altrove non trovano), anche se le mie non sono le tipiche materie di indirizzo di un istituto professionale».
Perché ha scelto di diventare insegnante?
«Al liceo ho vissuto il momento più difficile della mia vita: mi ero allontanata dalla Chiesa e avvertivo il fascino delle proposte politiche dell’estrema sinistra. Questo disagio in me si è risolto incontrando l’esperienza di Comunione e Liberazione e, poi, personalmente don Luigi Giussani: un adulto che mi ha preso sul serio. A quel punto, ho desiderato dedicare anch’io la vita all’educazione dei ragazzi, per tentare di offrire a quanti avrei avuto come studenti la stessa opportunità che la vita aveva dato a me».
Laureata in lettere, insegna in un istituto professionale. Come mai questa scelta?
«Per ragioni personali mi sono spostata tante volte di provincia e, per questo motivo, ho fatto una perfetta “carriera a rovescio”: dopo aver iniziato in un liceo scientifico, sono passata a un linguistico, quindi a una serie di istituti professionali, fino al “Marconi” dove mi trovo da vent’anni, ma dove, spero, resterò fino alla pensione. Dopo lo sconcerto iniziale, mi sono appassionata e sento di vivere un’avventura affascinante».
Perché parla di «sconcerto iniziale»?
«I primi due anni al “Marconi” sono stati durissimi. Era anche un momento faticoso della mia vita personale. All’inizio del terzo anno, il preside mi propone di prendere una classe tremenda: 31 alunni, 16 extracomunitari. Quasi nessuno era riuscito a farvi una lezione normale negli anni precedenti. Inizialmente mi rifiuto, ma alla fine cedo. Sulla via del ritorno a casa, comincio a piangere, già pentita della scelta».
Come trovò la forza per non arrendersi?
«Mentre piangevo, a un certo punto mi è passata per la testa la domanda: “E se fossi tu, Signore, a darmi questi ragazzi per cambiare me?”. Questa domanda ha introdotto una possibilità imprevista: si entra in classe per cambiare sé e questo offre una possibilità di cambiamento anche a chi ci si trova davanti».
E poi, che accadde?
«Arrivata a casa, guardo l’elenco dei 31 ragazzi e scopro di avere in classe cinque-sei pachistani. Dovendo cominciare il programma di Letteratura, mi sono chiesta: “Che cosa può importare di Leopardi a un pachistano o a un marocchino?”. Immediatamente la domanda è diventata un’altra: “A me cosa importa veramente di Leopardi?”. “Se parlo veramente al mio cuore, parlo anche al pachistano”, mi sono detta. Ed è così che li ho conquistati: leggendo in religioso silenzio il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, facendo capire che le inquietudini del poeta sono quelle dell’uomo di ogni tempo. Alla fine ho detto: “Ragazzi, allora quest’anno possiamo fare Letteratura e Storia, perché c’è qualcosa di comune tra noi. Quel giorno mi è stato chiaro che ho un alleato in ognuno dei miei ragazzi: è il loro cuore, la loro ragione. Se non fossi certa di questo, non potrei insegnare».
Lei una volta, in una testimonianza, ha detto: “Vedere ragazzi cambiati è il premio di questo lavoro”. Qualche esempio?
«Tanti dei nostri ragazzi devono affrontare questa età in condizioni economiche, sociali e familiari spesso difficilissime. Per loro la scuola può fare la differenza ed è per questo che affermo che vedere ragazzi cambiati è il premio di questo lavoro. L’ultimo esempio che posso fare è quello di Yuri, dislessico grave, che decide di partecipare, pur consapevole delle sue difficoltà, a un concorso indetto dal Corriere della Sera nel dicembre scorso, con un tema sulle attese per l’anno nuovo, il 2016. Quel tema è uscito sul numero di fine anno del supplemento domenicale La lettura, e oggi Yuri punta a iscriversi a Lettere. Mi colpisce che quasi tutti i ragazzi che escono dal Marconi tornano a trovarci: un po’ di tempo fa è venuto Giuseppe (che in seconda voleva smettere) a dirci che si era laureato in Ingegneria elettronica a Pisa e aveva vinto un dottorato in Germania; ed è venuto Francesco, uscito diversi anni fa, a chiedermi di accompagnarlo a morire perché aveva un tumore al cervello».
Cosa significa insegnare in classi con fortissime percentuali di ragazzi non italiani di origine: una risorsa o un handicap?
«Sono convinta che nella scuola si giochi la partita fondamentale per il nostro futuro. Oggi si tende a enfatizzare il ruolo di tante altre “agenzie educative”, compresi i mass media, i social network, ma per me la centralità della scuola nel processo educativo non è in discussione, don Lorenzo Milani insegna. Di più: è dalla scuola — e da questo tipo di scuola, nelle periferie geografiche e umane delle nostre città — che dipenderà se l’Europa o il mondo saranno luoghi di conflitto o meno. La scommessa dell’integrazione si gioca qui, sui banchi di scuola, non nei palazzi dell’Unione europea a Bruxelles. In una mia classe, folta di ragazzi musulmani, ci sono un ragazzo di Prato e un coetaneo marocchino e musulmano, amicissimi fra loro fin dalle medie. Il giorno dopo l’attentato in Belgio il marocchino ha detto: “La speranza di fronte a fatti come questi è l’amicizia tra noi due. Io in Italia non ho vissuto in un ghetto. E non potrei fare mai nulla di male contro il mio amico e la sua famiglia”».
Le “seconde generazioni” sono un ponte prezioso per l’integrazione…
«Io l’ho toccato con mano, ad esempio, dopo aver fatto in classe un approfondimento sulla storia dell’Albania dell’ultimo mezzo secolo. Non solo gli italiani hanno scoperto il dramma di un Paese alle porte di casa, ma gli stessi ragazzi albanesi ne hanno parlato in famiglia. Uno di loro si è appassionato al punto da farne l’argomento di una “tesina” per la maturità, discutendone con i genitori e facendosi raccontare ulteriori dettagli dagli anziani».
La scuola è appena partita, un consiglio per i colleghi insegnanti…
«Avere una grande certezza dentro di sé, perché l’insegnante semina, ma non sa quando e come raccoglierà il frutto dei suoi sforzi. Il lavoro dell’insegnante è sempre una proposta, perché davanti ha un’altra libertà, ma non sempre l’altro accoglie la proposta: questo, spesso, lo si vive come un fallimento. Ma io non sono padrona della libertà dell’altro, bensì un aiuto alla sua crescita, così come diceva san Paolo: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia”. Detto ciò, quando Dio ci dà la possibilità di vedere come fiorisce un ragazzo, è una grande gioia».
Testo di Gerolamo Fazzini