N. 4 - 2019 27 gennaio 2019
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Una vita a custodire la memoria di don Milani

Maresco Ballini aveva 16 anni quando incontrò don Lorenzo a San Donato Calenzano: «se vuoi capirlo devi andare agli anni…

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Ite, missa est di Daniele Rocchetti

Una vita a custodire la memoria di don Milani

Maresco Ballini aveva 16 anni quando incontrò don Lorenzo  a San Donato Calenzano: «se vuoi capirlo devi andare agli anni di San Donato», amava ripetermi

 Illustrazione di Emanuele Fucecchi

È morto il giorno di Natale, a 87 anni, dopo una vita intera passata a difendere, da sindacalista, i lavoratori e a custodire, in modo attivo, la memoria di don Lorenzo Milani. Il suo nome era Maresco Ballini e se ho capito qualcosa della straordinaria vicenda umana e spirituale del priore di Barbiana, lo devo certamente ai molti incontri fatti con lui sui luoghi di don Lorenzo.

Maresco aveva 16 anni quando lo vide al suo paese, San Donato di Calenzano, un borgo, allora di 1.500 persone, a forte concentrazione operaia, posto a metà strada tra Prato e Firenze. Era l’ottobre del 1947 e per don Lorenzo la prima vera  destinazione dopo l’ordinazione sacerdotale avvenuta nel luglio precedente. «Se vuoi capire qualcosa di don Milani devi andare agli anni di San Donato. è tutto lì dentro!», amava ripetermi Maresco. Anche perché don Lorenzo a San Donato stette a lungo, sette anni. «La prima volta l’ho incontrato la domenica, tre giorni dopo il suo ingresso in paese. Entrai in sacrestia, come ero solito fare per andare a salutare il vecchio parroco, e lì lo incontrai la prima volta. Lui mi vide e mi disse: “Tu sei Maresco!”. Restai meravigliato.  Era desideroso di conoscere i giovani uno ad uno». Maresco mi ha detto più volte che don Lorenzo per i “ragazzi di San Donato” era anzitutto prete e poi maestro e che il suo obiettivo primario era l’evangelizzazione. «Non operava forzature ma non c’è dubbio che il suo principale desiderio fosse quello di predisporre anche noi ad accogliere Dio nella nostra vita».

Girando per il paese, incontrando le persone, don Lorenzo si rese conto delle profonde ingiustizie sociali e intuì che la maggiore ingiustizia stava nel non possedere la parola: «La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma si misura dal grado di cultura e sulla funzione sociale». E ancora: «La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». Da questa consapevolezza scaturì la scelta della scuola: «Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e religiosa».

   

Illustrazione di Emanuele Fucecchi

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