N. 40 - 2018 7 ottobre 2018
INSIEME di don Antonio Rizzolo

Il grande amore per la Chiesa che ha unito Giovanni Paolo II e Paolo VI

Dedichiamo il numero a Papa Wojty?a, a 40 anni dall’inizio del suo pontificato. Egli ha condiviso con Montini, prossimo santo,…

In dialogo con don Vincenzo

Una colletta per regalare un abbonamento a Credere

«Carità della verità»: così don Alberione concepiva la diffusione della buona stampa. A cui tutti possiamo contribuire

Speciale Giovanni Paolo II

Uomo del suo tempo e uomo di dio

A definirlo così è Luigi Accattoli, che seguì il pontificato di Wojtyla come vaticanista del Corriere della sera: «Operaio,…

Orazio La Rocca

Giovanni Paolo II, rispettato anche dai non credenti

Chi non ricorda la frase «se sbaglio mi corriggerete»? «Rompendo il cerimoniale il Papa polacco conquistò anche gli anticlericali»,…

Cappella della Sindone a Torino

Rinata dalla fiamme

Dopo il restauro a seguito del rogo del 1997, riapre a Torino il luogo dove era conservato il Sacro lino. Un percorso spirituale…

Ite, missa est di Daniele Rocchetti

Solo con la memoria eviteremo di ripetere tragici errori

Ottant’anni fa con l’emanazione delle leggi razziali l’Italia toccò uno dei punti più vergognosi della sua storia. Tanto…

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Ite, missa est di Daniele Rocchetti

Solo con la memoria eviteremo di ripetere tragici errori

Ottant’anni fa con l’emanazione delle leggi razziali l’Italia toccò uno dei punti più vergognosi della sua storia. Tanto tempo è passato da allora, ma abbiamo il dovere di non dimenticare

Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Un giorno chiesi a Nedo Fiano, unico sopravvissuto di una famiglia sterminata a Birkenau, cosa erano state per lui le Leggi razziali.  

Mi fece prima vedere il braccio con tatuato A5405 e poi rispose così: «Vivevo a Firenze e la comunità ebraica allora contava 1.500 persone. Era una comunità composita: mia mamma aveva una deliziosa pensioncina con sette camere. Facevamo una vita normale. Non c’era razzismo. A quel tempo i ragazzi ci dicevano “Cucchina Lanai”, cercando di riprodurre la parola ebraica adonai, che significa Dio. Scaramucce, niente di più. Ci sentivamo più italiani degli italiani. Quando arrivarono le Leggi razziali mi chiamò il preside e mi disse che non dovevo più andare a scuola. Venni cacciato da scuola perché ebreo. A 13 anni mi sembrò di essere davanti a un baratro. In classe, mi sarebbe bastata una stretta di mano, una consolazione: “Nedo, non ti preoccupare giocheremo ancora insieme, noi siamo gli amici di sempre, non piangere”. Questo non è avvenuto».

«Sono nato a Rodi da una famiglia normale: papà, mamma e Lucia, una sorella più grande di me. Entrambi andavamo alla scuola italiana. Ho il ricordo ancora vivissimo del giorno in cui, in seguito alle Leggi razziali, il maestro mi disse che dal giorno dopo non potevo più recarmi a scuola. Avevo otto anni, ero in terza elementare, ma ho in mente ancora le sue parole. Io non sapevo perché, anzi immaginavo di aver commesso qualcosa e avevo paura di andare a casa e dirlo al papà. Lui mi tranquillizzò e vidi anche altri ragazzi cacciati via. Capii che eravamo stati espulsi perché di “razza” ebraica». A parlare così è Sami Modiano, deportato ad Auschwitz il 3 agosto del 1944, all’età di 14 anni. Sami mi mostra il braccio sinistro. Nella carne è impresso il tatuaggio: B7456.

Sono due delle molte storie che ho avuto il privilegio di ascoltare. Come quelle di Hanna Weiss e Liliana Segre, di Piero Terracina e Shlomo Venezia. Mi tengo stretto il loro ricordo e il monito, che sento ogni giorno più attuale, di Salvatore Quasimodo: «Memoria vi concede breve sonno: ora destatevi».

Illustrazione di Emanuele Fucecchi

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