N. 41 - 2016 9 ottobre 2016
INSIEME di don Antonio Rizzolo

Comunicare speranza e fiducia per far arrivare a tutti la “buona notizia”

È stato annunciato il tema per la prossima giornata mondiale delle comunicazioni sociali, in grande sintonia con lo spirito…

Padre Giuseppe Ambrosoli

Continuo l’opera di uno zio speciale

Medico e missionario in Uganda, padre Giuseppe Ambrosoli è stato dichiarato venerabile da papa Francesco. La fondazione nata…

Ite, missa est di Emanuele Fant

Uscita serale con l’ombra

Tutti l’abbiamo e anche io devo farci i conti. con quell’ombra che mi accompagna e a volte non mi lascia in pace...

Per una lettura completa...

Padre Giuseppe Ambrosoli

Continuo l’opera di uno zio speciale

Medico e missionario in Uganda, padre Giuseppe Ambrosoli è stato dichiarato venerabile da papa Francesco. La fondazione nata a suo nome prosegue il suo lavoro

Padre Giuseppe Ambrosoli con un piccolo paziente in braccio

«Il 17 dicembre scorso mio zio, padre Giuseppe Ambrosoli, è stato dichiarato venerabile. Ma per la sua gente, in Uganda, da tempo è già una figura straordinaria». Chi parla è Giovanna Ambrosoli, nipote del missionario comboniano, medico, morto nel 1987 dopo un vita dedicata al servizio degli ultimi in questo Paese africano, uno dei più travagliati da conflitti e povertà.

Dal 2010 Giovanna lavora a tempo pieno nella fondazione Dottor Ambrosoli, di cui oggi è presidente. La fondazione nasce nel 1998 per volontà della famiglia e dei missionari Comboniani, per garantire la funzionalità dell’omonimo ospedale fondato da padre Giuseppe. Dopo la laurea in economia e diverse esperienze lavorative — inizia nell’azienda di famiglia (la nota “Ambrosoli” del miele) e prosegue poi nel non profit in un fondo di investimento sociale — Giovanna unisce competenze professionali a una sensibilità che parte da lontano, da quando, al liceo, affiancava allo studio l’impegno come volontaria a scuola e all’oratorio.

Che ricordi ha di suo zio missionario?

«I miei ricordi rispecchiano quelli che tanti hanno di lui. Carità, umiltà, semplicità. Padre Giuseppe era uno che si dedicava agli altri senza mezze misure, ma senza mai far pesare l’aiuto che dava. Aveva una grande delicatezza d’animo, unita a una serenità di fondo difficile da immaginare in un contesto così complicato come quello ugandese: una serenità sorretta da una fede forte».

Che idea si è fatta di lui?

«È come se l’avessi conosciuto tre volte. I miei più cari ricordi di lui risalgono a quando, fin da bambina, lo incontravo di ritorno dall’Africa ogni quattro anni. Erano rare le volte però che riuscivamo a vederlo, perché anche “in vacanza” si prodigava con infaticabile energia per aggiornarsi nelle sale operatorie degli ospedali, o in giro per l’Italia alla ricerca di benefattori. L’ultima volta che l’ho visto stavo preparando un esame universitario con un’amica. Poi ho cominciato a conoscerlo in maniera nuova e più profonda lavorando in fondazione e incontrando tante persone (confratelli comboniani, volontari, collaboratori italiani e ugandesi…), sulle quali ha lasciato un segno. Infine, sto scoprendo nuovi e sconosciuti episodi e momenti della sua vita attraverso la preparazione di un nuovo libro sulla sua figura al quale sto lavorando con Elisabetta Soglio, giornalista del Corriere (uscirà nel 2017). Un viaggio molto ricco di sorprese».

In che senso?

«Abbiamo recuperato, ad esempio, un interessantissimo carteggio tra padre Giuseppe e sua mamma: si sono scritti ininterrottamente e con grande frequenza dal 1956 fino alla morte di mia nonna, nel 1977. Ci sono poi tante splendide lettere di padre Giuseppe a confratelli comboniani e a molti volontari. Inoltre, abbiamo rintracciato articoli molto belli usciti all’indomani della sua morte».

Una morte paradossale, la sua: medico sempre infaticabile a servizio degli altri, non è riuscito a curarsi in tempo…

«Padre Giuseppe è morto di venerdì, il lunedì successivo mi sarei laureata. La notizia della sua morte mi ha raggiunto lasciandomi un senso di profonda ingiustizia: nel pieno di una crisi renale, è morto dieci minuti prima che arrivasse l’elicottero inviato dalla capitale Kampala in suo soccorso! Fino a quel momento, si era letteralmente consumato per i suoi malati. Nell’ultimo periodo aveva un solo rene funzionante e gli avevano imposto di ridurre l’attività, condotta per trent’anni a ritmi frenetici: al mattino iniziava a operare prestissimo, poi alle due mangiava un boccone, quindi via all’ambulatorio. Nel tardo pomeriggio la celebrazione della Messa e l’attività pastorale e la sera l’incontro con i medici e poi ancora lo studio fino a tarda notte».

Padre Giuseppe si era trovato coinvolto nel dramma della guerra civile...

«A partire dagli anni Ottanta, il Nord Uganda è stato teatro di un sanguinoso scontro tra i ribelli Lord’s Resistance Army (Lra) e l’esercito nazionale, che ha provocato oltre 100 mila vittime e il drammatico fenomeno dei bambini soldato (almeno 30 mila). Per difendere l’ospedale, padre Giuseppe è arrivato ad affrontare i soldati, che gli hanno sparato un colpo, fortunatamente non andato a segno. Non voleva che la sua creatura, dove egli accoglieva tutti, fossero soldati governativi o ribelli, venisse distrutta. Eppure mi hanno raccontato che quando è stato costretto a evacuare l’ospedale — di notte, una fiumana di malati, medici e infermieri si è messa in marcia sotto la luna piena — pur col pensiero che forse tutto era andato perduto, padre Giuseppe non ha mai perso calma e fiducia. Al contrario, i suoi collaboratori lo hanno sentito dire: “Quello che Dio chiede non è mai troppo”».

L’ospedale, fortunatamente, è stato risparmiato…

«L’intera comunità si è organizzata per preservare quello che tutti a Kalongo sentono come qualcosa di “loro”. E questo è il segno più bello che padre Giuseppe ha lasciato e il motivo per cui la fondazione ne ha raccolto l’eredità e si prodiga ogni giorno per assicurare continuità e futuro alla sua opera, anche oggi che mio zio non c’è più».

LA VITA. IN AFRICA PER DIO
Che Giuseppe Ambrosoli fosse una persona fuori dal comune lo si era intuito già quando, giovane universitario costretto a interrompere gli studi per via della guerra, si adoperò per salvare partigiani ed ebrei perseguitati, aiutandoli a fuggire in Svizzera. A Ronago, a due passi dal confine elvetico, Giuseppe era nato nel 1923, settimo di otto figli. Finita la guerra, riprende gli studi e si laurea in Medicina e chirurgia. La vocazione missionaria lo porta a entrare nei Comboniani: viene ordinato sacerdote nel 1955. Pochi mesi dopo si imbarca per l’Africa, destinato a Kalongo, nel Nord Uganda. Lì, nell’arco di trent’anni, dal 1957 alla morte, trasforma un piccolo ambulatorio in una delle più importanti strutture sanitarie ugandesi, con 271 posti letto e standard di cura elevati. Fedele al motto di Comboni, «salvare l’Africa con gli africani», nel 1959 fonda anche una scuola specialistica di ostetricia, fondamentale sostegno al reparto maternità e struttura d’eccellenza: le sue ostetriche diplomate (1.305 dall’inizio a oggi) sono richieste anche in altri Paesi africani. All’ospedale di Kalongo, in cui lavorano circa 300 operatori locali, fanno riferimento circa 50 mila persone, nel 70% dei casi donne e minori. Riaperto nel 1989 dopo la guerra da padre Egidio Tocalli, è ora intitolato al suo fondatore: il dottor Ambrosoli. Padre Egidio, comboniano e medico, lo ha diretto sino al 2009, portando avanti il processo di “africanizzazione”: ora la proprietà è della diocesi di Gulu. Padre Giuseppe muore a Lira nel 1987. Nel ’99 è stato aperto il processo di beatificazione e a fine 2015 è stato dichiarato venerabile.

Testo di Gerolamo Fazzini

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