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Dal baratro del carcere alla missione a Baghdad
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Antonio Baccassino
Dal baratro del carcere alla missione a Baghdad
Dopo una vita tra delinquenza e droga, l’incontro con la Comunità Papa Giovanni XXIII e il cammino della fede. «Fare i conti con i propri fallimenti non è facile. Ma un prete mi disse: “Chi sei tu per giudicarti?”». Fu la scoperta dell’amore di Gesù
Che nella vita di Antonio Baccassino ci sarebbe stato qualcosa di particolare si capì fin dalla nascita, il 20 gennaio 1967, avvenuta durante una nevicata “miracolosa”: a Nardò, in provincia di Lecce, non si era mai vista la neve, gli raccontò la mamma. Ma neppure sua madre poteva immaginarsi le capriole che la vita avrebbe riservato al figlio. «Ho passato metà della mia esistenza in carcere e ancor più nel delinquere; non sono mancati i problemi con la droga», racconta dall’Iraq dove, alla soglia dei cinquant’anni, vive da 18 mesi con la Papa Giovanni XXIII, la comunità fondata da don Oreste Benzi. Da tossicodipendente e carcerato a missionario laico, insomma.
In estate, a Baghdad, nel pomeriggio la temperatura sale a 56 gradi, rendendo faticoso qualsiasi movimento. Il clima è rovente anche da un altro punto di vista: «Gli attentati sono all’ordine del giorno, quasi ogni sera ci sono quattro o cinque morti, non fanno neanche più notizia». Ci sono conseguenze sulla quotidianità: «Stavo facendo la spesa», racconta Antonio, «e ci hanno mandato via perché temevano che la nostra macchina, parcheggiata vicino a un fruttivendolo, fosse un’autobomba. Anni di guerra educano alla scuola della violenza: in un ristorante del quartiere, si è presentato un uomo con guardie del corpo ma i tavoli erano occupati.Ha ammazzato alcuni clienti urlando: “Ora il posto c’è”». Ha ragione papa Francesco: «Non è una guerra di religione, a morire sono soprattutto musulmani. I cristiani danno particolare fastidio perché rappresentano un elemento di diversità: per questo, dalla guerra del 2003 ad oggi, moltissimi sono stati costretti ad andarsene».
OPERATORI DI CARITÀ
Antonio vive nella capitale irachena insieme a Stefano, altro membro italiano della Comunità Papa Giovanni; sono ospiti di due sacerdoti argentini del Verbo Incarnato in una palestra della Caritas. Al mattino aiutano le suore di Madre Teresa a dare da mangiare a trenta disabili, nel tardo pomeriggio visitano i profughi (cristiani, yazidi, musulmani sunniti e sciiti) alle porte della città. «Però l’obiettivo», aggiunge Antonio, «è aprire a breve una casa famiglia per disabili: nella percezione comune, un handicappato rappresenta la condanna di Dio, perciò porta disonore alla famiglia di appartenenza».
A Baghdad Antonio è arrivato dopo una missione ad Haiti, per raccogliere le ferite della popolazione dopo il terremoto. Parla di un’esperienza di «condivisione senza limiti di tempo, in cui la fede ti insegna non tanto a ragionare razionalmente, ma ad affidarti a qualcun altro». Però non si sente un missionario: «Sono io che mi sto evangelizzando; se poi attraverso la mia conversione posso essere di attrazione per qualcun altro, ben venga». La sua conversione è arrivata alla soglia dei 40 anni: «Fino ad allora nominavo Dio solo per imprecare. La prima volta sono finito dietro le sbarre a 14 anni, ho provato anche il regime speciale di detenzione e l’essere considerato soggetto socialmente pericoloso. La galera ti distrugge». Un po’ di luce arriva quando, nel carcere di Spoleto, inizia a studiare. Si laurea in pedagogia con 110 e lode, con una tesi dal titolo: “Genealogia del potere di Foucault”. «Lo studio», riflette, «mi ha dato l’opportunità di uscire da una subcultura. Vedere la vita con altri occhi».
Non basta: quando esce dalla prigione, «schifato dalla vita», «da somaro grande» si affida alla droga. La caduta diventa l’occasione dell’incontro con la Comunità Papa Giovanni: «Quando mi portarono a Roma in piazza San Pietro per un incontro con il Papa, di fronte a quella fiumana di gente, pensai: “O sono pazzo io, o sono pazzi loro”». Per Antonio è una della prime occasioni in cui iniziare a guardarsi dentro: «La Comunità mi propose un programma terapeutico non per “drogati”, ma per cambiare stile di vita: prendere coscienza che la vita umana, e quindi anche la tua, ha valore e non si può buttare via». Fare i conti con i propri fallimenti non è facile per nessuno, ma un piccolo e anziano sacerdote, don Eugenio, capisce dove sta il nocciolo del problema: «Mi ripeteva di non giudicarmi. E gli replicavo: “Se non mi giudico, mi dimentico”. “Chi sei tu per giudicarti? Non spetta a te”, mi gridò in faccia insieme a qualche altra parola che è meglio omettere…».
L’AMORE DI GESÙ
Fu il colpo di grazia: «Quel pretino mi fece conoscere il Gesù d’amore, non un Gesù di vendetta e flagellazione». Pare di sentire le predicazioni di papa Francesco in tempo di Giubileo della misericordia, quando ricorda che per arrivare a non giudicare, prima dobbiamo riconoscerci peccatori. «Perdonare se stessi», dice Antonio, «non è facile. In missione ho capito che se non riesci ad amare te stesso non riesci ad amare gli altri. Se Dio non mi ha giudicato, chi sono io per giudicare? Non vuol dire non fare i conti con il passato, ma quando accetti questo, ti togli un peso dal groppone, perché guardare indietro e rimanere sereni non è sempre facile».
Ancora oggi Antonio soffre quando si volta indietro e rivede il passato: «Il dono della serenità è la prima cosa che chiedo a Dio ogni mattina». Ma c’è una grande consapevolezza conquistata: «Ho vissuto una vita oltre il limite, senza mai essere, sia sotto l’aspetto fisico sia mentale, libero tra carcere e droga. Oggi invece l’unica libertà vera la vedo con Dio, nella scelta di affidarsi a Lui»
Testo di Stefano Pasta