N. 49 - 2018 9 dicembre 2018
INSIEME di don Antonio Rizzolo

Un dono per il tempo di Avvento: crescere sempre più nella speranza

In queste settimane che ci separano dal Natale la Chiesa ci invita alla vigilanza e alla preghiera. E a chiedere al Signore…

Padre Cesare Falletti

I monaci, spiriti liberi che vivono insieme

Preghiera, silenzio, lavoro. Ma anche spazio per le passioni personali e per un pizzico di ironia. È questa la vita al monastero…

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Padre Cesare Falletti

I monaci, spiriti liberi che vivono insieme

Preghiera, silenzio, lavoro. Ma anche spazio per le passioni personali e per un pizzico di ironia.  È questa la vita al monastero cistercense di Pra d’Mill, secondo il suo fondatore. Cosciente che «la grande tentazione della clausura è la fuga da se stessi»

 Padre Cesare Falletti

La prima volta che sono salito a Pra d’Mill, vent’anni fa, non c’era nemmeno la strada asfaltata. Le ore liturgiche erano officiate in una stalla e della chiesa attuale si intuivano solo le fondamenta. Oggi abitano il monastero 15 monaci, la foresteria può ospitare qualche decina di persone, mentre i nuovi tetti d’ardesia e il campanile sembrano da sempre appoggiati alla montagna, in mezzo ai frutteti e al filare di alveari che ogni anno si allungano. Padre Cesare Falletti, che di Pra’d Mill è stato fondatore e priore fino a due anni fa, sorride davanti a me immaginando la prima domanda.

Come era nata l’idea di un nuovo monastero?

«Un monastero, non lo so. Questo è nato per un insieme di circostanze. Alla fine degli anni Ottanta l’abbazia francese di Lérins (su un’isoletta di fronte a Cannes, ndr) dove abitavo, riceveva molti italiani, sia monaci che ospiti. Negli stessi anni le diocesi piemontesi registravano la necessità di una comunità monastica, una lettera dei preti di Torino informava l’abate di Lérins che i vescovi piemontesi avrebbero gradito una fondazione, e così siamo venuti qui, fratel Paolo e io».

«Le altre circostanze?»

«Sicuramente quelle legate alla biografia di Leletta d’Isola, la nobildonna che ha donato il terreno. E le vite di molti altri amici».

Dal mare di Lérins alla montagna, in fondo a una valle detta “Infernotto”, dominata dal Monviso: è un bel cambiamento.

«La collocazione geografica è un’altra delle circostanze che ci ha insegnato molto. Fin dall’inizio, ad esempio, con gli ospiti siamo monaci, ma con i vicini siamo appunto vicini… Non si può dire a gente di montagna: “Scusate, siamo in clausura, per cui non disturbateci”. La priorità con loro non è parlare di Dio ma la manutenzione dei boschi, la prevenzione degli incendi, gli animali…».

Cosa si fa in un monastero?

«La giornata è scandita dai sette momenti di preghiera comune, il primo alle 4 di mattina, l’ultimo alle 8 di sera. C’è un tempo ampio tra le preghiere perché ci sembra che non sia un buon servizio ritmare il giorno in modo incalzante. Poi c’è il lavoro, con cui ci manteniamo. All’inizio pensavamo di specializzarci nella produzione di pane, poi ci siamo trovati davanti alla porta ceste intere di frutta regalata… ed è nata l’idea delle marmellate, oggi ottenute anche con i frutteti che abbiamo piantato noi».

«Chi viene a Pra d’Mill che cosa cerca?»

«Non lo so» (ride).

Riformulo la domanda: chi viene a Pra’d Mill che cosa dice di cercare?

«Un luogo dove pregare o dove fare silenzio. Molti cercano i monaci, un’amicizia, un’accoglienza, un sorriso, qualcuno che li ascolti. Parecchi cercano una chiesa. Dicono “qui si sta bene”, ma non so bene cosa significa. In fin dei conti tu sapresti dirmi con esattezza cosa stai cercando e cosa ti fa stare davvero bene?».

Mi avvalgo della facoltà di farle un’altra domanda. In pochissimi anni siete diventati 15. Come avete fatto?

«Sono arrivate le vocazioni. Di nostro, abbiamo lavorato molto e coscientemente sulla comunità fraterna e sulla libertà degli spiriti. Ogni monaco, qui, può essere quello che è, a patto di rimanere in unità con tutti».

Può spiegarci meglio?

«La vita cistercense è comunitaria. C’è anche la solitudine della preghiera, il deserto, ma non è l’aspetto totalizzante. Molti di noi hanno iniziato il percorso monastico da adulti. Siamo arrivati già molto “caratterizzati”. Stiamo tutti cercando Dio, attenti in primo luogo all’unità fraterna. Ma bada bene: unità, non uniformità. Ci hai visto in coro?»

Lo stesso identico abito, le stesse parole e gli stessi gesti: eppure ognuno ha uno stile unico.

 «Esatto. La prima priorità per tutti è la preghiera comune, la seconda è la disponibilità ai lavori manuali, ma poi quasi tutti hanno un hobby: chi lavora il cuoio, chi il rame, chi suona… Dentro la comunione della preghiera e la serietà del lavoro, ogni monaco può avere uno spazio per qualcosa che gli fa piacere».

Piacere? Strano sentirlo da un monaco.

«Papa Francesco non invita continuamente al gaudio? Che io sappia, recare piacere a un amico non è un peccato mortale. Abbiamo una liturgia impegnativa, viviamo con grande serietà il silenzio e l’ascesi del cibo e delle veglie, lavoriamo molto, ma non siamo vittime immolate. E quando ci lamentiamo, cerchiamo di farlo con un po’ di ironia e umorismo, che aiutano sempre».

Quando qualcuno chiede di diventare monaco a Pra d’Mill, cosa gli succede?

«Si inizia con qualche settimana, spesso un mese, passati con noi, in clausura. Se funziona, si attiva un noviziato, che può portare alla professione temporanea e infine a quella solenne. Ma ogni storia può essere diversa, a seconda di come reagisce la comunità».

La comunità?

«Il discernimento ha due soggetti: chi cerca la vita monastica e chi la vive già. Chi è in ricerca deve trovare in quello che vive la comunità ciò che sta cercando. La comunità, da parte sua, deve assumersi la responsabilità di decidere se egli è in grado di vivere al suo interno».

E come si esprime?

«Soprattutto attraverso la quotidianità. Se ad esempio l’unica cosa che i fratelli chiedono al priore su un nuovo regardant (ospite temporaneo, ndr) è quando se ne andrà, è chiaro che la comunità si sta esprimendo anche senza una votazione ufficiale… La comunità è un corpo vivo».

Capita spesso?

«Non so darti statistiche, ma è abbastanza normale che qualcuno inizi qui e finisca per accorgersi che il suo posto è un altro. Non è una sconfitta, anzi. Se in un altro monastero o in un altro stato di vita è più felice, siamo noi i primi a esserne contenti, tanto che con molti siamo rimasti in ottimi rapporti».

Qual è la principale tentazione del monaco?

«La fuga da se stessi. Accorgersi che si ha un problema e non volerlo affrontare. Non si valuta mai abbastanza se la scelta di una vita di silenzio è una fuga da se stessi. Bisogna affrontare questa lotta. Devi accettarti come sei. E la comunità ha un ruolo fondamentale: se ti accetta e ti vuole bene, sarà più facile affrontare lo scontro con quella parte di te che non accetti e non ami».

Se lei si guardasse indietro dopo quasi quarant’anni?

«Rimarrei stupito da quanto la vita monastica è bella. Mi ha fatto vivere esperienze magnifiche e fatto scoprire cose di me che non avrei mai sospettato. In essa stanno la comunione, la semplicità di vita e…»

… e?

«Mi piacerebbe dirti la consolazione del Signore, ma non è detto che ci sia sempre. Andrè Louf diceva che il monaco è esperto di ateismo perché il silenzio è soprattutto… silenzio. Ma il monaco sta tanto sulla Scrittura. Ed è bello».
  

CHI È?
Nato nel 1939 da una famiglia piemontese trasferitasi a Roma, Cesare Falletti diventa prete a 22 anni. Nel 1966 il cardinale Pellegrino lo vuole a Torino vicerettore del seminario regionale per le «vocazioni adulte». Dal 1971 al 1979 una serie di viaggi e incontri (dalla Savoia al Libano) lo portano alla professione monastica nell’abbazia cistercense di Lérins, in Francia. A Pra d’Mill (Cuneo) nel 1995, insieme al confratello Paolo, ha fondato il monastero Dominus Tecum.
   

Testo di Marco Ronconi - Foto di Matteo Montaldo

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