Credere n.5 - 02/02/2013
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Paola Marozzi Bonzi
Una vita al servizio della vita
In occasione della Giornata per la vita, che ricorre il 2 febbraio, abbiamo incontrato Paola Bonzi: fresca di Ambrogino d’oro, in trent’anni ha salvato 17 mila bambini dall’aborto.
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TOCCO VELLUTATO - Paola Marozzi Bonzi mentre accarezza dolcemente la pancia di Noemia. Foto di STEFANO PAVESI/CONTRASTO.
«Lo scorrere della vita sulla terra mi sembra come la tessitura di un gigantesco arazzo. Ci sono innumerevoli punti, alcuni belli e splendenti, che rappresentano le persone felici, quelle che hanno realizzato la loro vita. Ce ne sono altri meno lucenti, ma almeno ci sono. E poi ci sono i punti mancanti…».
Ci congeda con queste parole Paola Marozzi Bonzi, sintetizzando con una suggestiva immagine la sua straordinaria missione a servizio della vita nascente. Quei punti mancanti sono i bambini mai nati perché abortiti. Si tratta di milioni ormai – in Italia almeno sei – da quando, nel 1978, è stata introdotta la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Le energie di Paola – dal 1980, anno in cui fondò con suo marito Luigi il Movimento per la vita ambrosiano, fino a oggi, attraverso il Consultorio e il Centro di aiuto alla vita (Cav) Mangiagalli, da lei avviati nel 1984 – sono state tutte dedicate perché di quei punti ne manchino sempre meno. Sono 17 mila, secondo stime recenti – oltre mille solo nell’ultimo anno – le mamme che in questi tre decenni, in preda a mille dubbi se abortire o meno, si sono rivolte al Centro di aiuto alla vita Mangiagalli di Milano, ospitato nell’omonima e famosa clinica di neonatologia nel pieno centro di Milano, e al suo Consultorio poco distante.
È proprio per la fedeltà a questa missione che lo scorso 7 dicembre le è stato assegnato dal Comune di Milano l’Ambrogino d’oro, l’onorificenza civica per chi si è distinto nella costruzione di una società migliore. Un riconoscimento laico per una donna che ha fatto della fede – mai sbandierata “contro†qualcuno ma vissuta come fedeltà al suo Battesimo – l’ispirazione centrale della sua intera vita. «L’ho accettato solo perché è un attestato a tutto il Cav e a tutti i suoi operatori», si schermisce lei. E c’è da giurarci che ci crede. Basta vedere la cortesia con cui coordina il lavoro dei suoi collaboratori, la dolcezza con cui accarezza la pancia delle mamme, soprattutto straniere, che incontra per dare loro incoraggiamento umano, conforto, uno sguardo complice e amico. E, attraverso il Cav, aiuti materiali, accompagnamento psicologico e legale.
Gli oltre mille firmatari della petizione per sostenere l’assegnazione dell’Ambrogino a Paola Bonzi testimoniano la sua singolare figura; l’appoggio che ha avuto da personalità laiche, come la ginecologa Alessandra Kustermann – primario alla Mangiagalli che non fa segreto del suo appoggio alla 194 – e il radicale Lorenzo Strik Lievers, non fanno che confermare il suo approccio delicato, dialogico, aperto.
Se oggi Paola Bonzi è un cittadino eminente del capoluogo lombardo, di strada nella vita ha dovuta però farne molta. Le sue origini sono, infatti, umili. Nasce il 29 giugno 1943 da una famiglia povera a Sermide (Mantova), dove la mamma si è rifugiata per scappare dai bombardamenti su Milano, proprio mentre il papà è impegnato nella campagna di Russia. A guerra finita la mamma fa la “modistaâ€, confeziona cioè cappelli di alta moda per le signore benestanti; il padre è barbiere per i signori della città . «Non ho avuto fratelli né sorelle, cosa che ho sofferto molto, anche se vi ho posto riparo con la mia fantasia galoppante: così da bambina “facevo lezione†alle mattonelle del pavimento di casa, che erano le mie birichine alunne», ricorda con tenerezza. «Quando ero malata e avevo la febbre dovevo starmene da sola in casa. Per questo ho imparato presto a badare a me stessa».
Una scuola, quella dell’immaginazione, che le tornerà utile quando, a 24 anni, rimane cieca. Paola e Luigi sono sposati da poco più di un anno e, a pochi mesi dalla nascita della primogenita Cristiana, un virus incurabile attacca all’improvviso i bellissimi occhi azzurri della ragazza, che deve interrompere l’allattamento. In poco tempo, nonostante le cure, non ci vede più. Questo fatto, in sé drammatico, non la ferma. Anzi, se possibile, alimenta ancor di più il suo desiderio di vivere. Due anni dopo aver scoperto la malattia, contro il parere dei medici, Paola partorisce – siamo nel 1968 – il secondogenito Stefano. La sua vita decolla pur nella nebbia della cecità , aiutata da quel pilota automatico che la guida: l’amore in famiglia – che si arricchirà anche di altre due figlie, Laura e Valentina, adottate pur tra tante sofferenze – e la passione per la sua professione, l’insegnamento elementare, che non abbandona ma che, anzi, arricchisce con nuovi corsi, fra cui il diploma in Scienze religiose, che le aprirà l’insegnamento della religione.
«La fantasia mi ha aiutata a sopperire alla mia cecità e nella mia vocazione a favore della vita. Tastando le pance delle donne incinte riesco a “vedere†con i miei “occhi interiori†quello che gli occhi fisici non colgono: il bambino che si sta sviluppando lì dentro», dice un po’ emozionandosi. «Lo sento vivo, cerco di comunicare alle mamme che, se avranno fiducia, nascerà una nuova creatura che darà nuova linfa al mondo», dice, guardando le mamme, soprattutto straniere, che affollano il Cav. Sono tante quelle che ogni giorno incontra, tutte ancora incerte sul da farsi, spesso con il certificato in mano. «Affronto ogni dialogo con trepidazione», confida, «e alla fine del colloquio chiedo sempre di accarezzare loro la pancia». Nove donne su dieci, anche grazie agli aiuti, accettano di portare avanti la gravidanza. Un atto d’amore che eviterà , anche grazie a Paola Bonzi, un pentimento tardivo.
Testo di Stefano Stimamiglio