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Luigi Ballerini
Scommettete sui vostri figli
Quattro volte papà, psicoanalista e autore di libri per ragazzi, Luigi Ballerini spiega perché bisogna dar fiducia ai giovani, rinunciando al controllo ossessivo
Luigi Ballerini
Titolo del tema: “Il giorno più bello della mia vita”. Alberto racconta la sua felicità quando scoprì che il padre gli avrebbe regalato la bicicletta. Ester descrive un indimenticabile viaggio in Sudamerica con la famiglia. Potrebbero essere desideri e ricordi di adolescenti di oggi. Risalgono invece al 1943 e sono rimasti sepolti nello scantinato di una scuola italiana di Salonicco, la “Umberto I”, frequentata anche da ragazzi ebrei.
La furia nazista si abbatté sulla comunità sefardita della città greca, una delle più numerose in Europa. Furono deportate 54 mila persone. Ne sopravvissero poco più di duemila. I temi dei ragazzi della Umberto I, scoperti per caso solo tre anni fa, hanno ispirato Hanna non chiude mai gli occhi, l’ultimo libro di Luigi Ballerini, uscito in occasione della giornata della memoria. Cinquantatré anni, psicoanalista, Ballerini vive a Milano con la moglie Daniela e quattro figli di età compresa fra i 16 e i 24 anni. Gli adolescenti li ascolta in famiglia, nel suo studio, negli incontri che tiene nelle scuole. Una decina d’anni fa ha cominciato a raccontarli. Ha scoperto che la cosa gli riusciva bene e lo appassionava e oggi è anche un affermato autore per ragazzi. Nel 2014, con La signorina Euforbia (San Paolo), si è aggiudicato il Premio Andersen per il miglior libro età 9-12 anni.
Come si è imbattuto nei ricordi dei ragazzi ebrei di Salonicco?
«A spingermi è stato mio figlio subito dopo la maturità, facendomi conoscere la figura di Guelfo Zamboni. Console italiano a Salonicco, salvò diverse centinaia di uomini e donne della comunità ebraica attribuendo loro la cittadinanza italiana ed evitando così che venissero deportate in Germania. Ho chiamato l’Istituto di cultura italiana ad Atene e al telefono mi ha risposto Antonio Crescenzi. Mi sono così imbattuto in un’altra storia. A Salonicco c’erano sei scuole italiane, frequentate anche da ragazzi ebrei. Una era l’Umberto I, attuale sede dell’Istituto di cultura italiana. Crescenzi mi raccontò di aver trovato nei sotterranei temi e pagelle del periodo fra il ’41 e il ’43. Mi invitò a Salonicco e mi fece leggere i componimenti di due ragazzi ebrei. Sono stati loro a ispirare i personaggi del mio libro».
Lei scrive per i ragazzi di oggi. Cosa ha voluto dir loro con questo racconto?
«Per quanto sia profondamente cambiato il contesto, i desideri, le aspettative, i sogni, le preoccupazioni dei quindicenni di allora erano molto simili a quelli di adesso. Per questo anche un ragazzo di oggi ci si può rispecchiare. Mi ha colpito proprio il fatto che la voglia di crescere, di essere felici, di pensarsi adulti è qualcosa di trasversale a tempi e situazioni molto diverse. Essere giovani ha una sua specificità, che è proprio quella di pensarsi nel futuro, persino quando questo futuro, com’è accaduto nel ’43, potrebbe anche non esserci».
I ragazzi del ’43 vivevano la guerra, le persecuzioni razziali, realtà terribili da affrontare. Eppure si proiettavano verso il futuro. I ragazzi di oggi vivono nel benessere, eppure a volte sembra manchi questo slancio, perché?
«Non c’è paragone con la situazione storica, oggettiva, di allora. Dentro le mutate condizioni, quindi dentro un generale benessere dove i bisogni primari sono per lo più soddisfatti – stiamo parlando dell’Occidente, ovviamente, dell’Italia – c’è una questione aperta. Che tipo di prospettiva noi adulti diamo ai ragazzi? I tanti discorsi depressi e deprimenti che si sentono in giro non fanno un buon servizio ai giovani. Invece di puntare uno sguardo nero e di sfiducia sulla crisi si potrebbe incoraggiarli a sviluppare le capacità individuali e sociali partendo, per esempio, dall’impegno e dal lavoro».
Cosa appesantisce oggi lo slancio dei giovani?
«A me preoccupa molto il fatto che abbiamo consegnato loro un mondo del lavoro “drogato”, dove prevale la competitività e in cui l’altro è percepito come un concorrente e non un compagno. Il lavoro come assoluto al quale bisogna sacrificare tutto il resto. Magari restando in ufficio fino alle dieci di sera per far vedere che vali più degli altri. Già per la mia generazione di cinquantenni non era così. Era piuttosto normale, per esempio, avere i padri che tornavano a casa per il pranzo. Non auspico un ritorno anacronistico, ma è per dire che c’erano tempi in cui era possibile coltivare i rapporti, la famiglia, gli interessi. A casa si staccava. Oggi anche a causa delle tecnologie siamo perpetuamente connessi. Si può lavorare sempre e ovunque. E questo “si può” diventa spesso “si deve”».
Lei è psicanalista e parla spesso nelle scuole. Di cosa hanno bisogno i ragazzi?
«Innanzitutto di essere ascoltati. I ragazzi di oggi sono i più controllati e abbandonati della storia. Da un lato c’è un controllo quasi ossessivo: il cellulare lo si regala precocemente per tenerli d’occhio. Riscontro una percentuale crescente di genitori che usa il GPS del telefono per tracciare la mobilità dei figli. Dall’altro lato c’è l’abbandono. Che equivale a non ascoltarli, a non considerarli come dei soggetti che hanno qualcosa da dire su di sé e sul mondo. Il fatto che non li riteniamo interlocutori credibili e affidabili fa sì che li controlliamo, anche a distanza, ma poi ci perdiamo quello che pensano davvero».
Parlare con un figlio adolescente però non è sempre facile…
«Ai genitori che mi dicono: “Mio figlio non mi parla più”, rispondo: “Ma cosa raccontate di voi?”. I più sinceri ammettono che raccontano molto poco di sé ai figli. Non immagina quanti ragazzi incontro che non sanno che lavoro fanno i genitori. Magari sanno vagamente che il padre è ingegnere, ma non sanno cosa fa. Invece queste cose ai figli interessano moltissimo. La comunicazione però non può essere univoca, domanda-risposta. Nei momenti in cui ci si ritrova, per esempio a cena, deve esserci un flusso di comunicazione continua nel quale anche i figli si innestano, durante il quale ciascuno racconta cosa ha fatto durante la giornata. Altrimenti si finisce con il genitore che chiede “Come è andata oggi?” (che poi spesso equivale a: “Che voto hai preso?”) con i figli che rispondono a monosillabi».
Come imparare ad ascoltare i figli?
«Un esempio bellissimo ci viene dal Vangelo. Anche i genitori di Gesù non hanno capito granché quando, a dodici anni, Gesù ha detto loro: “Perché mi cercavate? Non sapete che devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. È singolare che l’episodio al tempio fra i dottori sia l’unico nel Vangelo che riguarda Gesù adolescente. È il momento del suo Bar mitzvah, che per un giovane ebreo segna l’ingresso nell’età adulta e in un rapporto individuale con Dio. Gesù prende sul serio questo momento, la sua non è tanto una ribellione quanto un’affermazione. Ai genitori dice: “Questa è una cosa mia”. Loro non capiscono, ma il Vangelo dice che “Maria custodiva queste cose meditandole nel suo cuore”. Per ascoltare ci vuole pazienza. E rispetto. Oggi sarebbe impensabile nei confronti di un dodicenne ammettere che “questa è una cosa tua”, al limite, se va bene, è “una cosa nostra”».
Intende dire che c’è troppa invasione di campo da parte dei genitori nei confronti dei figli?
«Lo si vede nei gruppi di WhatsApp di genitori, che si confrontano sui compiti dei figli. Anche i registri elettronici, che permettono in tempo reale di vedere i voti dei figli, rispondono a questa tendenza, che è quella di una totale intrusività da parte dei genitori nella vita dei figli. Si confonde l’intrusione e il controllo con un’amorevole attenzione educativa. Ma questo è un tranello, una mistificazione, perché quello che ci viene chiesto è aiutare i figli a diventare grandi, a cavarsela da soli e a gestire le situazioni che si trovano ad affrontare, nella prospettiva di fare sempre più passi indietro noi perché siano loro i protagonisti».
I ragazzi di oggi sono presi da mille attività. Perché questa tendenza a riempire ogni loro momento vuoto?
«È arrivata da me una bambina di nove anni che si è seduta e ha detto: “Speriamo di morire presto”. Quando le ho chiesto di più mi ha detto: “Sono così stanca che almeno quando sarò morta potrò restare sdraiata”. Andando a vedere l’agenda di quella bambina si capiva il perché: compiti fatti in fretta perché dopo c’è nuoto, poi via da nuoto per un altro impegno, poi c’è magari la signora che viene in casa a fare mezz’ora di inglese perché così ci si porta avanti. E alla fine della giornata ti metto su un bel dvd di edutainment, quei giochi mascherati che hanno come fine l’apprendimento. In questo modo anche il gioco e il momento di riposo non sono più tali».
Perché questa pressione nei confronti dei ragazzi?
«Per il desiderio che siano i primi. Non gli diamo il tempo di capire, di masticare le cose, di prendere provvedimenti, di comportarsi di conseguenza. Anche sull’apprendimento abbiamo poca pazienza. C’è un’ansia anticipatoria. Adesso bisogna andare alla primaria sapendo già leggere e scrivere e magari un po’ di inglese».
C’è un complimento dei suoi giovani lettori che le ha fatto più piacere di altri?
«A volte i ragazzi mi chiedono: “Come fai a pensare come noi?”. In questi giorni ho fatto un incontro con delle seconde medie e quando ho chiesto a un ragazzo perché gli era piaciuto il mio libro mi ha risposto: “Perché il protagonista prova delle cose che provo anch’io, ma che pensavo di essere l’unico a provare”. Credo che questo sia il valore della letteratura: è capace di infrangere la nostra barriera di solitudine».
La parola chiave EDUTAINMENT
È un’espressione nata dalla fusione delle parole educational (educativo) ed entertainment (divertimento), con la quale si intende una forma di intrattenimento che ha anche risvolti educativi. Sono sempre di più, per esempio, i giochi in scatola o al computer finalizzati all’apprendimento, anche per i piccolissimi. Secondo Ballerini bisogna invece lasciare ai bambini momenti di gioco che siano tali. A parere dello psicanalista, i bambini non vanno caricati in ogni momento di un’attesa di prestazioni che è, di fatto, un’esigenza degli adulti: “Facciamo finta che giochi, in realtà anche qui ti chiedo di dare la risposta esatta”.
Il libro HANNA E GLI ALTRI
di Luigi Ballerini,
Hanna non chiude mai gli occhi (San Paolo), è ambientato nel 1943 a Salonicco. Alterna la vicenda documentata del console italiano Guelfo Zamboni, che salvò la vita a numerosi ebrei, con quella di due personaggi di fiction, Hanna e Joseph, creati dall’autore prendendo spunto dai temi, ritrovati di recente, di due ragazzi ebrei di Salonicco e dalle testimonianze dei sopravvissuti.
Testo di Emanuela Citterio
Foto di Fabrizio Annibali