N. 50 - 2017 10 dicembre 2017
INSIEME di don Antonio Rizzolo

Non dobbiamo avere paura di essere cristiani veri, pieni di gioia

Le parole di papa Francesco ai giovani del Myanmar valgono per ciascuno di noi. Come cristiani, qualunque sia il nostro stato…

Viaggio di Francesco in Myanmar

Costruiamo l’armonia con le differenze

Nel Paese multietnico dove i cristiani sono netta minoranza Francesco ha incoraggiato il cammino della democrazia guidato…

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Viaggio di Francesco in Myanmar

Costruiamo l’armonia con le differenze

Nel Paese multietnico dove i cristiani sono netta minoranza Francesco ha incoraggiato il cammino della democrazia guidato da Aung San Suu Kyi

Francesco stringe la mano a Bhaddanta Kumarabhivasma, capo del consiglio supremo dei monaci buddhisti birmani.

La cosa che più colpisce in Myanmar non sono le pur splendide pagode di cui è disseminato il paesaggio, ma lo sguardo gentile delle persone. I volti di tutti si aprono naturalmente al sorriso ed è una lezione per noi occidentali, resi scorbutici dall’eterna fretta del fare. Questa mitezza, che ha un che di evangelico, è il frutto della religiosità in cui è immerso un Paese di 53 milioni di abitanti, al 90 per cento buddhisti di tradizione Theravada, la più ortodossa.

Il Papa nel far visita al Sangha, il consiglio supremo dei monaci buddhisti, ha comparato le parole di Buddha con quelle di Francesco d’Assisi. Eppure questa profonda spiritualità non ha impedito all’ex Birmania di patire oltre mezzo secolo di dittatura militare e di produrre una serie infinita di lotte e tensioni. Il fatto è che non si tratta di una nazione qualunque, ma del crogiolo di 135 etnie.

Bergoglio ha insistito molto sul valore della diversità. Ricevendo i rappresentanti di tutte le religioni nella sua residenza, presso l’arcivescovado, ha detto che unità non vuol dire essere tutti uguali, ma sentirsi riconciliati. La sfida – ha spiegato – sta nella capacità di costruire l’armonia attraverso le differenze. Nella Messa per la comunità cattolica, formata da appena 700 mila fedeli, ha consegnato il mandato della riconciliazione. Proprio perché si è piccoli, e dunque fuori dai recinti del potere, si può mostrare meglio la strada della croce e del perdono, oltre ogni logica di vendetta. In Myanmar c’è una Chiesa viva – ha scandito il Papa –, che pur con pochi mezzi a disposizione sta offrendo un grande aiuto ai bisognosi. La solidarietà senza distinzioni di fedi e appartenenze razziali è già, da queste parti, un forte messaggio sociale e politico.

UNA VISITA DIFFICILE
Nonostante i suoi 81 anni, Francesco ha desiderato spingersi nelle periferie dell’Asia. Barcollando un po’ è sceso dall’aereo che lo ha portato nella nuova e desolata capitale Naypyidaw. L’importante era rimanere ben in equilibrio tra gli ostacoli diplomatici della visita. Prima di tutto quello di avere di fronte un doppio referente: da una parte la grande traghettatrice Aung San Suu Kyi, dall’altra i militari che detengono ancora tre ministeri chiave.

Il capo di stato maggiore delle forze armate, Min Aung Hlaing, si è presentato prima di tutti a stringere la mano al Papa, modificando il programma inizialmente concordato. Una visita di cortesia, si sono affrettati a precisare dal Vaticano, col sapore però di un avvertimento, come a voler ricordare chi comanda davvero e a chi si deve dar conto.

Il Pontefice era stato messo al corrente della situazione birmana dall’arcivescovo di Yangon, il cardinale salesiano Charles Maung Bo, che tra l’altro aveva chiesto esplicitamente a Francesco di non usare nei discorsi ufficiali il nome «Rohingya», quello dell’etnia di fede musulmana assurta alla cronaca mondiale per la fuga di massa dal Myanmar. Un popolo che i birmani sentono estraneo, anche per colpa dei nazionalismi e della paura del fondamentalismo islamico.

Subito si è creata la sindrome della parola proibita: il Papa paladino degli esclusi può accettare il compromesso del silenzio? I media internazionali si sono concentrati su questo particolare nel seguire l’atteso incontro tra Francesco e la Lady. I due hanno fatto, si potrebbe dire, gioco di squadra. Aung ha ammesso la situazione critica nel Rakhine, la regione costiera al confine col Bangladesh dove i Rohingya erano insediati. Il punto, ha però precisato, è che il mondo scopre oggi un problema di vecchia data, in cui si sovrappongono questioni sociali, economiche e politiche. Si tratta, in ogni caso, di una delle tante emergenze che il governo birmano deve affrontare.

SERVE UN FUTURO DI PACE
Il Papa, a sua volta, ha evitato riferimenti diretti e ha incoraggiato ad andare avanti nella costruzione di un sistema democratico inclusivo, che coinvolga tutti, con la medesima dignità e gli stessi diritti. «Il futuro del Myanmar», ha affermato, «dev’essere la pace fondata sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità».

Il sostegno di Francesco alla leader birmana è quanto mai importante in questa fase storica. Aung San Suu Kyi negli ultimi mesi è stata messa sulla graticola proprio a causa della questione Rohingya. Inaccettabile, si è detto, che una Nobel per la pace permetta la «deportazione» di oltre seicentomila persone, spinte manu militari verso il Bangladesh e costrette a vivere in campi profughi improvvisati, in condizioni spaventose. L’Università di Bristol le ha ritirato la laurea honoris causa, Amnesty International l’ha bacchettata e personaggi famosi, da Bono e Bob Geldof, hanno avuto parole di fuoco contro di lei.

Isolare la “consigliera di stato” birmana può costar caro. Solo Aung ha la forza e il carisma per portare a termine la delicata transizione democratica in una nazione chiave, stretta tra i giganti India e Cina, quest’ultima pronta ad allungare i suoi tentacoli sulle tante risorse naturali di cui è ricco il Myanmar. Il potente vicino ha appoggiato sempre i militari, che hanno imposto l’unità nazionale col pugno di ferro e che tuttora controllano tre ministeri chiave. La sfida è passare a un progetto condiviso, dove le diversità da problema si trasformino in opportunità di crescita per il Paese. Un sogno, per il momento, più che una meta.

Ma non c’è solo l’emergenza Rohingya. In questi giorni le parrocchie di Yangon si sono trasformate in centri d’accoglienza per migliaia di cristiani di varie etnie, giunti dai posti più lontani del Myanmar. Nella chiesa di San Francesco abbiamo incontrato i Kachin, venuti dalle zone montuose del nord, gli uomini con la spada rituale alla cintura, le donne adornate con ampie collane d’argento simili a mantelle. Fanno parte di un’altra minoranza, quasi interamente cristiana, in perenne lotta con il potere centrale. «Di fatto non abbiamo alcuna libertà di espressione e così si alimenta la lotta armata», ci spiega un loro leader, Augustin Maganing Mung Hkai. Hanno consegnato al Papa migliaia di lettere: «Gli abbiamo scritto che vogliamo offrire le nostre sofferenze perché ci sia un futuro di pace».

IL VIAGGIO IN DUE PAESI
In Myanmar si sono svolti i primi tre giorni del viaggio del Papa. Lì Francesco ha dedicato il primo giorno agli incontri politici nella capitale, il secondo alla visita al Consiglio supremo dei monaci buddhisti e al dialogo con i vescovi cattolici, il terzo alla Messa con i giovani in cattedrale. Nella seconda parte della visita, in Bangladesh, nel corso della prima giornata, Bergoglio ha incontrato le autorità politiche; poi ha dedicato la seconda giornata alla comunità cattolica e a un incontro interreligioso per la pace e il terzo giorno di nuovo si è intrattenuto con i cattolici incontrando i giovani e i sacerdoti e facendo visita a una casa d’accoglienza dalle suore di Madre Teresa.

Testo di Enzo Romeo

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