N. 51 - 2017 17 dicembre 2017
INSIEME di don Antonio Rizzolo

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Don Giacomo Panizza

La speranza è più forte di tutte le intimidazioni

Da anni vive sotto scorta e i suoi progetti vengono vandalizzati. Il motivo? Crea posti di lavoro per persone con disabilità, immigrati e tossicodipendenti. E non accetta compromessi: «Non pago il pizzo, vogliamo essere liberi!»

Don Giacomo Panizza

Nella notte fra il 5 e il 6 dicembre don Giacomo Panizza ha dovuto fare i conti con gli ennesimi atti vandalici e intimidatori che hanno colpito la Comunità Progetto Sud, da lui fondata 41 anni fa. D’altronde, che Lamezia Terme sia una delle periferie esistenziali di cui parla papa Francesco è fuori discussione: il 22 novembre il Comune in provincia di Catanzaro è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. La decisione del Consiglio dei ministri ha raggiunto la terza città della Calabria e altri quattro consigli comunali della regione. E per Lamezia, 70 mila abitanti, si tratta della terza volta in meno di trent’anni: era successo anche nel 1991 e nel 2003.

Ma il sacerdote bresciano, trapiantato per scelta nel profondo Sud, resiste e con i suoi collaboratori – tanti laici, soprattutto donne – crea posti di lavoro e speranza per le persone con disabilità fisiche e mentali, immigrate, tossicodipendenti, insieme a una miriade di iniziative. Eppure a fine settembre alcuni ladri hanno forzato il cancello de Le agricole, la cooperativa costituita da donne in difficoltà che produce agricoltura biologica all’Erbaio, un terreno alla periferia sud della città. I ladri hanno divelto il tetto della casetta realizzata all’interno del campo coltivato, portando via diversi attrezzi per la lavorazione del terreno. Poi un furto all’interno del parcheggio custodito dell’ospedale cittadino, intitolato a Giovanni Paolo II e gestito dalla Ciarapanì, cooperativa sempre parte della “grande famiglia” targata Progetto Sud: ignoti hanno forzato la porta di ingresso del gabbiotto presente nel parcheggio e hanno rubato il denaro dalla cassa, poi divelta.

Pochi giorni fa i malviventi, dopo aver manomesso la cassetta del denaro, hanno distrutto il costoso macchinario che emana i biglietti del parcheggio, sottraendo un bottino di 102 euro e 40 centesimi ma causando danni per 10 mila. «C’è differenza tra chi vuole rubare e chi vuole vandalizzare facendo finta di rubare», denuncia don Panizza.

INTIMIDAZIONI E MINACCE
Sono soltanto gli ultimi episodi di una catena di piccoli furti e atti vandalici: si sommano alle pesanti intimidazioni che hanno colpito da tempo la Comunità e don Giacomo. Da anni il sacerdote vive sotto scorta, con un programma di protezione modulato a seconda del luogo in cui deve andare; il suo telefono è sotto controllo e nella casa in cui vive sono installate sette telecamere. Non ripete mai lo stesso percorso in macchina ed esce sempre in compagnia di molte persone. «Denunciamo ogni volta perché vogliamo continuare a rimanere liberi. Da alcune intercettazioni e testimonianze di “pentiti”, sembra che dietro tutto ciò ci sia una regia criminale. Perché sono azioni che ci indeboliscono economicamente. Ma non siamo una ditta: siamo un’associazione che aiuta le persone a crescere, a essere consapevoli. Vogliamo essere liberi, senza nessuno che ci protegga, che vincoli o condizioni la nostra libertà».

Il pizzo don Giacomo non lo ha mai pagato, e ne sconta le conseguenze. Però non si fa scoraggiare, e racconta con soddisfazione alcuni traguardi raggiunti insieme a tanti operatori e volontari: «Accogliamo 153 migranti in 23 appartamenti in affitto dove vivono in un clima di famiglia». Al sacerdote piace il metodo dei «piccoli gruppi» e l’ha applicato a tante situazioni critiche: «persone in carrozzina, tossicodipendenti, donne in difficoltà. Perché funziona: nei piccoli gruppi salta fuori chi tira, chi fa la parte maschile e quella femminile, chi fa lo zio…». Insomma, s’intessono relazioni autentiche, che spesso durano nel tempo.

SULLA SCIA DEL VATICANO II
Don Panizza crede ai capisaldi del Concilio, come la valorizzazione dei laici: «Delego molto. È bello vedere la gente che fa qualcosa, che cresce facendo e che non opta per lo faccio a scaricabarile». Quando era seminarista 24enne a Brescia, dopo aver lavorato per un decennio come metalmeccanico in fabbrica e aver rinunciato con sofferenza alla fidanzata, il Vaticano II era oggetto in classe di discussioni, ma «alcuni professori vietavano di parlarne. Per me era una realtà nuova, perché prima di avere la vocazione non frequentavo un giro ecclesiale. Ma capivo che prima qualcosa non andava», ricorda, ancora con uno spiccato accento lombardo che non è svanito dopo oltre 41 anni in terra calabra.

«Ho vissuto il passaggio in un altro mondo con le sue bellezze e le sue brutture e paure. Erano gli anni Sessanta e qui vedevo omertà: non pronunciare mai la parola ’ndrangheta. Ho imparato che qui c’è una vita faticosa, bella e importante, fatta di una povertà che Dio non vuole, come quella dei sottomessi che votano chi li tradisce o degli emigranti che fuggono per non stare gomito a gomito con i mafiosi».

CONTRO LA RASSEGNAZIONE
Piano piano il sacerdote – che dal ’99 insegna “Il lavoro sociale” all’Università della Calabria, è vicedirettore della Caritas diocesana e parroco a Jevoli, disseminata in una decina di frazioni collinari – ha capito che al Sud in genere «occorre dilazionare i tempi, dedicarsi alle relazioni e allo stare insieme, ai contatti umani.

Ho visto crescere e formarsi volontarie donne che non solo si rimboccano le maniche, ma condividono il loro sapere e l’esperienza sui temi delle mafie. Sono diventate formatrici a loro volta, con la voglia di far sentire la loro voce. La chiamo “spiritualità del fare”, capace di generare relazioni simmetriche ed equilibrate tra chi aiuta e chi è aiutato, spaccando l’immaginario della rassegnazione. Vuol dire stare accanto a chi è incasinato per uscirne insieme, senza diventare la protesi di chi ha bisogno».

Testo di Laura Badaracchi - Foto di Antonia Messineo

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